sabato 20 dicembre 2008

I quattro dell'apocalisse..

 Che il nostro non sia un lavoro convenzionale lo si comprende facilmente: la malattia non dà tregua e l’emergenza sa scegliere orari e luoghi spesso originali, addirittura bizzarri. Per questo nessuno di noi si stupì più di tanto quando, alle 20 circa, con le mani di Federico e Simonetta (i miei impagabili amici/collaboratori) ben affondate nella pancia di un paziente e i miei occhi fissi sui monitor di anestesia, arrivò una telefonata: dal convento di Arezzo, suor non mi ricordo come si chiama, amica carissima di Federico, ci comunicava trafelata che il gatto più anziano della loro nutrita colonia aveva improvvisamente iniziato a mostrare problemi di respirazione dopo un lauto pasto a base di pollo e delle di lui ossa. La diagnosi non era difficile: con molta probabilità uno di quei vendicativi ossetti, non avendo più alcuna ragione di vita, aveva deciso di piantarsi nella gola del carnefice, nella speranza di portarlo con sé a miglior vita. Il povero osso, però, non aveva considerato che i paladini della felina salute (noi) non conoscono resa né riposo. Così ognuno di noi, lo confesso: segretamente compiaciuto della propria indispensabilità, sbuffando e lamentandosi della sorte (bisogna pur darsi un contegno) si preparò al salvataggio in trasferta. Nell’occasione potevamo per di più avvalerci dello “straniero”: l’amica medico umano che non vedeva l’ora di osservare i “cugini” veterinari all’opera sul campo. Terminato l’intervento, mentre io mi assicuravo che il paziente si risvegliasse tranquillo nel ricovero dove lo avevamo trasferito, Federico e Simonetta iniziarono i preparativi per l’emergenza aretina. Verso le 21 ci mettemmo in macchina con grande dispiego di mezzi, noi deplorando la cattiva sorte, la “cugina umana” tutta eccitata per la novità. Arrivammo sul posto (bellissimo) verso le 22.30, dopo aver coperto più o meno due anni luce di “stradina” bianca che, con molta probabilità, non era ancora mai stata calpestata da un mezzo senza cavalli. Parcheggiammo e scaricammo: la macchina di anestesia portatile con i suoi monitor, DUE endoscopi con telecamera, fonte di luce e monitor, il set chirurgico, la cassetta dei farmaci da emergenza; il necessario insomma per approntare un ospedale da campo che nemmeno la crocerossa! Ci caricammo tutto addosso mentre Federico ci blandiva con promesse di cena luculliana che suor qualcosa ci avrebbe volentieri offerto alla fine. A pieno carico sembravamo i Ghostbusters. Faticosamente ci trascinammo all’interno del convento attraverso il parco infinito (bellissimo) annesso. Suor come si chiama ci venne incontro sorridente (certo! Lei aveva già mangiato) e solo appena turbata dalla mobilitazione di cose e persone che uno stupido ipotetico osso poteva aver provocato. “Federico, come sei stato gentile a venire, non vorrei averti disturbato troppo”.

Ora: io stazzo 100 chili su un metro e novantatrè, diciamo pure che le due dottoresse fossero nascoste dalle borse e scatole che trasportavano, Federico è l’UNICO che abita ad Arezzo: con queste informazioni è facile dedurre che Suor mannaggia non mi ricordo il nome difetta di un’obiettiva capacità di analisi, o quanto meno dovrebbe rivedere il suo concetto di captatio benevolentiae! Sorvolando sul mio lieve essere permaloso, Suor…macomesichiama?!? Ci condusse in uno degli annessi del maniero (dove tra parentesi abitano 4 suore) e intanto “ci” raccontò: “vedi Federico, Lillo è con noi da 10 anni, gli siamo tanto affezionate. Solo che lui ha un carattere così difficile con gli estranei (ci mancava il gatto stron…bisbetico: siamo pur sempre in un convento!): si agita molto e si mette subito sulle difensive (che in proprietaresco significa più o meno: vi salterà alla gola e farà di voi coriandoli; non ne uscirete vivi!). Federico incrociò lo sguardo degli altri 3 convenuti e abbozzò un rassicurante sorriso (porca vacca: ci siamo dimenticati la gabbia di cattura!). Nel varcare la soglia dell’annesso (due cantine piene di marmellate, enormi), visto che i monasteri hanno porte rubate di fresco alle casette dei puffi, sbattei una sonora capocciata e a malapena riuscii a ricacciare in gola lo sproloquio che saliva spontaneo con grandi occhiatacce di tutti, tranne di Suor cosetta che continuò a sorridere…beffarda forse. “il gatto, continuò lei, è stato chiuso dentro il bagnetto dei bimbi (quei poveretti che sfidano ogni settimana l’impervia strada per fare catechismo) ed è lì che lo abbiamo lasciato mezz’ora fa. Ti prego Federico fai attenzione: è davvero un birbante!”.

Per dovere di cavalleria, dopo aver caricato in siringa una dose di anestetico per stendere un cavallo, Federico e io scivolammo nella stanza da bagno richiudendo subito la porta. Al centro della stanza, con gli occhi più tranquilli del mondo, un gatto tigrato ci accolse, senza manifestare alcun disagio.

Ecco io non posso definirmi una persona paziente, ma ho la presunzione di capire quando le sto per prendere di santa ragione da un animale e nessuno dei miei campanelli mentali stava suonando quindi, mentre Federico invocava prudenza, mi avvicinai a Lillo, lo accarezzai e gli iniettai un decimo dell’anestetico che avevo preparato. In 30 secondi il gatto ronfava tranquillo sul pavimento. Gli misi sotto una copertina e, mentre l’eroe del convento iniziava a montare l’endoscopio (e dovete credermi: ci vuole il suo tempo), io curiosai in bocca del felino……………………………………. Ci volle ancor meno che a scrivere questi puntini: una MINUSCOLA vertebra di pollo alloggiava dietro un molare del plateale gatto e mi ci volle un nanosecondo a toglierla. Tornai trionfante da Federico che stava bilanciando il bianco della telecamera dell’endoscopio…se avesse potuto, credo, mi avrebbe sepolto vivo. Gli spettatori che nel frattempo si erano intrufolati nella stanza erano a quel punto impegnati a rotolarsi a terra per le risate, tranne suor cosa lì, che se ne uscì con queste testuali parole: “Federico! Non so proprio che dire: sono così sollevata, che dire: sei il nostro salvatore!”. E se lì il direttore generale del convento, dalla sede distaccata nei Cieli l’avesse fulminata per blasfemia, io credo che avrei sogghignato, ma sorvoliamo: il punto è che IO ero il salvatore. IOOO!!!. Bene! Mi sarei vendicato mangiato le scorte annuali del monastero. 

La povera sorella passò ai convenevoli e ci chiese con raffinate circonlocuzioni quanto ci doveva per il disturbo e noi ci schernimmo: avevamo deciso in partenza che quello sarebbe stato un lavoro pro bono. Iniziammo dicendo che era stata una sciocchezza: si vabbè il viaggio, si vabbè l’ora tarda, la strada impervia, l’intervento di 4 medici, la fame galattica, ma in fondo era pur sempre un piacere fatto ad un’amica di uno di noi…un pasto frugale sarebbe bastato!

Detto fatto: la sorella, non certo mia, tirò fuori quattro vasetti di marmellata dicendo: “prendete queste: le facciamo noi e sono naturalissime, come piccolo segno di gratitudine”. In buona sostanza: ok grazie e fuori dalle balle, che è tardi. Gli sguardi che colpirono Federico ora erano piuttosto penetranti, taglienti e spero dolorosi! Senza battere ciglio ricaricammo arnesi e macchina, ripercorremmo la strada, ancor più odiosa dell’andata e concludemmo il glorioso salvataggio al primo autogrill, mangiando uno striminzito panino…spero almeno che agli inferi ci sia un girone per le ossa di pollo!

lunedì 17 novembre 2008

Gatto geniale

Egregio dottore,

Forse ricorderà di avermi cortesemente donato una cuccia da termosifone per il gattastro (notoriamente molto amante del suddetto utensile da riscaldamento). Con l'arrivo del freddo la cuccia è stata finalmente messa in posizione, e il piccolo genio peloso ha capito subito come usarla (vedi foto allegate).

Lavori in corso


Ci scusiamo per il disagio momentaneo, ma tutto lo staff dell'ambulatorio veterinario è straimpegnato in emergenze, chirurgie, spese folli. Come si dice: lavoriamo per voi. Promettiamo comunque un solerte ritorno al resoconto delle nostre rocambolesche avventure appena riusciremo a trovare la concentrazione necessaria..


PS: come al solito non volevamo abusare del copyright di nessuno, spero che Silver non si offenda, visto che sono un fanatico sostenitore di Lupo Alberto da che ho memoria...

venerdì 15 agosto 2008

Profezie


Era una notte calda e afosa questa volta. Le 2 passate e stavamo aspettando, in un paesino sperduto vicino Siena, un collega con il suo bulldog, Cesare, che ci avrebbe salvato la vita.

Avevo discusso la mia tesi di laurea 3 giorni prima e mi trovavo già in prima linea con Laura, amica di sempre, veterinaria da poco più tempo di me, e Penelope, il suo bassethound, che non la smetteva di sanguinare copiosamente dal naso. La colpevole un’agguerrita quanto, all’epoca per me, sconosciuta Leishmaniosi (ok, non la conoscevo, ma avevo già capito quanto potesse rompere!). Un’occasione d’oro per il mio battesimo di fuoco.
La vicenda si protraeva ormai dalle 18.30 precedenti: Laura mi aveva chiamato dicendomi che Penelope aveva una forte epistassi e non sapeva che fare. A quell’epoca lei faceva già pratica presso un collega quindi, con mia somma invidia, era un pozzo di scienze rispetto a me. Mi disse che le aveva già provate tutte, ma non c’era stato verso di arrestare l’emorragia. L’unica cosa che rimaneva da fare era una trasfusione. Il donatore c’era, quello del suo mentore, bisognava solo arrivare vicino a Torrita di Siena e le serviva un autista, mentre lei avrebbe cercato di evitare che la macchina prendesse le sembianze di un mattatoio ambulante…un apporto tutto veterinario il mio, non c’è che dire…ma poco importa: alle 21, come da istruzioni del collega, ci mettemmo in viaggio. Alle 21.30 eravamo già, puntualissimi, di fronte all’ambulatorio. Nel frattempo il sangue di Penelope aveva rallentato la sua corsa folle verso il mondo esterno, forse perché ne rimaneva troppo poco. La trasfusione rimaneva comunque una necessità impellente viste le copiose perdite. Entrammo in ambulatorio con la copia delle chiavi di Laura ed iniziammo i preparativi per la trasfusione. Erano passato almeno altri 20 minuti ma di Enrico (il collega) e Cesare nessuna traccia.
Alle 22.30, vinti gli indugi, lo richiamammo e lui rispose masticando sonoramente che sarebbe arrivato in una mezz’ora. Noi eravamo digiuni e affamatissimi…accogliemmo la notizia con un …moto d’impazienza, ma non avevamo molte alternative. Alle 23 passate però iniziammo a preoccuparci per le sorti del disgraziato collega. Altra telefonata e finalmente la verità: “Laura scusa ma sono a Roma, però ho finito di mangiare, ora mi metto in macchina e arrivo. Per farla breve torniamo alle 2.30: sonnecchiando sulle poltroncine della sala d’attesa sentimmo una macchina arrivare tipo Starsky e Hutch, sgommando sul piazzale. Ne scese un simil-galeotto con gli occhi spiritati e il sorriso satanico, seguito da un bulldog assolutamente indifferente che ci fece due feste e si gettò sui resti delle nostre pizze. In 5 minuti quello stesso cane se ne stava immobile sul tavolo visite a farsi rubare un po’ di sangue tra schizzi e aghi. A me toccò il compito di agitare la sacca con l’anticoagulante ai piedi del tavolo. Sarà stato il caldo estivo, sarà stata l’ora impossibile o il sangue caldo che si agitava sulle mie mani ma, a dirla tutta, stavo per svenire e mi salvò solo una zolletta di zucchero presa direttamente dalle mani sporchissime di Enrico il quale sentenziò: “ragazzo mio, complimenti per la laurea, ma tu non sarai mai un veterinario!”.

giovedì 14 agosto 2008

Era una notte buia e tempestosa...


L’anno moriva assai dolcemente…mi sarebbe tanto piaciuto iniziare così un mio racconto. Ma più che alle opere di D’Annunzio, i miei pensieri somigliano ai romanzi di Snoopy: “era una notte buia e tempestosa...”.

Era una notte buia e tempestosa, appunto, e ringraziavo il Cielo di essere nel mio letto, al calduccio. E mi godevo tutto quel piovere, bene al sicuro tra le mura della mia casa in Piccione. Era circa mezzanotte ed indugiavo sulle pagine del libro dei libri: La versione di Barney. In poche parole: me la godevo. Niente di male fin qui. Il guaio è che me la godevo e gongolavo su questo mio star bene. Mi gongolavo a tal punto che, immancabile, squillò il telefono. Mentre riconoscevo sconsolato il numero della clinica per la quale lavoravo, mi obbligai mentalmente a trovare le parole magiche che mi avrebbero permesso di aiutare il collega di turno, per il quale ero reperibile (poveraccio!!), senza bisogno di uscire dal letto. Dopo 3 squilli di training autogeno ero pronto a rispondere: “Maurizio! Che succede?” dissi col tono più rassicurante che trovai. “Ciao Alessandro, scusa il disturbo, mi dispiace e bla bla bla” “Maurizio! – tagliai corto – vai al sodo ti prego!”.
“Si beh, ci sarebbe da mettere una cannula ad un cane e proprio non mi riesce…”.
“…Maurizio!!! Fammi capire: secondo te io dovrei lasciare il calduccio del mio letto, affrontare il diluvio universale, farmi 15 chilometri di strada, di cui 2 impraticabili, perché tu non riesci a mettere un ago in vena a un cane!?”
“…eh…mi sa di si…”
FANTASTICO!
Mi alzai come una furia, sembravo un pazzo, mi vestii al buio e scesi in strada. La macchina era giusto a 2 secchi d’acqua dal portone e quando la raggiunsi avrei già dovuto tornare in casa a cambiarmi. Salii imprecando e partii a razzo. La strada bianca, complice l’acqua, sembrava più un torrente da rafting e guadai a valle piuttosto che guidare, non senza difficoltà. Nel frattempo pensavo a cosa ci facessi in macchina con quel tempo, solo per aiutare un collega a fare la prima cosa che ci insegnano appena laureati. Per carità: mica è sempre facile, ma da lì a chiamare un collega nel cuore della notte per una stradannatissima cannula. In un cane per giunta, che come minimo pesava 30 chili a aveva vene come autostrade. Eddai!!
Comunque ormai ero arrivato e tanto valeva sbrigarsi: potevo sempre tornare a casa a godermi ancora un po’ il mio rifugio.
Entrai negli ambulatori e capii, mentre rischiavo un infarto: alle 00.30 di un neonato 16 gennaio, l’intero staff della clinica più qualche amico infiltrato mi aspettava intorno a 29 candele accese e una torta.
Ricordo ancora la sensazione esatta che provai: li avrei uccisi tutti.
Ma chi lo batte un compleanno così??

giovedì 31 luglio 2008

Ai confini della realtà


Sono disposto ad ammettere che i miei racconti siano spesso quasi inverosimili, ma voglio rassicurarvi: è tutto vero. Senza questa premessa, non sarete mai disposti a credere alla mia esperienza AI CONFINI DELLA REALTA’ (uuuuuuuuuuuuuuuuh!!!).
Come gran parte delle cose assurde, tutto ebbe inizio in modo assolutamente normale: era un pomeriggio come tanti di primavera. Avendo lavorato la notte precedente, avevo il giorno libero ed ero ben deciso a godermelo: avevo gambe riposate (e giovani, sigh!), pattini logori e una mazza da hokey nuova fiammante. I miei amici erano già sul campo e prometteva di essere una giornata coi fiocchi. Indovinate? DRIIIIIIIIN!! Lo so, oggi non mi sarei mai portato dietro il telefono, ma all’epoca il cellulare era ancora una mezza novità, quindi me ne separavo mal volentieri. “pronto?”, “Dottore sono Silvana, la proprietaria di Ettore, deve correre da me perché ho un’emergenza”. Silvana era di strada, nessun problema quindi: mi sarei fermato da lei, avrei valutato la situazione e, qualora fosse stata seria, avrei suggerito di portare Ettore in clinica. Figurone e partita salva. Arrivai al cancello di Villa Silvana (Giuro!!) e suonai. Da un punto lontano, imprecisato, si diffuse per un istante il lamento di un cane, che si confuse subito dopo con il frinire di una cicala piuttosto insistente. Guardai l’orologio con un certo disagio: 20 minuti per arrivare al campo…l’uggiolare del cane mi arrivò di nuovo, un po’ più forte e tormentoso. Rimasi dunque sbigottito quando il portone della casa si aprì e vidi Silvana ed Ettore venirmi incontro al cancello. Ettore saltellava allegro…ma allora chi piangeva!? Silvana mi aprì il cancellino pedonale, con modi un po’ nervosi, scusandosi perché il comando da casa non funzionava da qualche giorno (il lamento del cane riprendeva a tratti, spezzando la calma del pomeriggio). La padrona di casa non sembrava ansiosa di svelare l’arcano, dunque mi costrinsi a tagliar corto e le chiesi quale fosse il motivo per cui mi aveva chiamato. Fare molta molta attenzione: questa domanda, fatta al momento giusto (e cioè durante la telefonata), avrebbe potuto evitare questo strano evento. Silvana si decise a dirmi che proprio non riusciva a spiegarsi come fosse accaduta una cosa del genere, che non si era mai trovata di fronte ad una situazione così assurda…”e del resto non voglio trasformarla in uno spettacolo da circo - stava dicendo appunto - Qui bisogna essere cauti e ragionare bene sul da farsi. Preparati, perché potresti avere un piccolo shock”. Durante questa conversazione avevamo colmato la distanza tra noi e il lamento, attraversando il giardino e arrivando alla porta della serra. Silvana impugnò la maniglia. Lo ammetto, mi trovavo ormai in uno strano stato di attesa: qualsiasi cosa ci fosse dall’altra parte della porta non poteva che essere straordinaria. Finalmente la padrona di Ettore (anche lui di fronte alla porta, ma incosciente dell’enfasi del momento) esclamò: “oggi stavo passeggiando con Ettore su in collina ed abbiamo incontrato due cani gemelli congiunti!!”. Aprì la porta e il mio rullo di tamburi mentale si trasformo in un rumore di vetri frantumati. Due cani, incredibilmente simili per mole e aspetto, questo devo ammetterlo, se ne stavano piuttosto spaventati in un angolo della serra, cercando di capire cosa sarebbe successo loro. Guardai Silvana, pallida in viso, che iniziava a comprendere. La sua mente tuttavia, troppo eccitata all’idea della scoperta del secolo, si opponeva ancora alla logica dell’evidenza: “Oh che dolore! Per la la paura devono essere riusciti a staccarsi!”. Guardai Silvana come un genitore che debba dire a suo figlio che Babbo natale non esiste. Le feci notare che non c’era traccia di sangue e che, a occhio e croce, i due cani dovevano essere un maschio e una femmina. Tuttavia, se avesse avuto pazienza, di gemelli in quella serra ne avrebbe visti parecchi, anche se magari non congiunti. Silvana mi guardava interdetta e io non volevo che correre a giocare a hokey. Anche se bruscamente riportai, l’affranta donna alla realtà: le dissi che per i cani è normale, alla fine di un…incontro amoroso, rimanere attacati. Non le chiesi, ma avrei voluto, come diavolo avesse fatto a caricarseli in macchina e poi a spostarli nella serra senza separarli. Mi feci invece aiutare a prendere i cani, cercare i tatuaggi (che per fortuna c’erano) e rintracciare i proprietari. Silvana fece quanto le chiesi, solerte, ma contrariata e la capisco: la sua “scoperta” era molto più eccitante della realtà. Per farla breve i due cani vennero restituiti ai rispettivi proprietari, ma non potei prendermi neppure in parte il merito: ero già impegnato a perdere, credo 12 a 5, la mia agognata partita di hokey.
Del resto…l’importante è partecipare…

questione di ... specie

Non potei non farci caso. Avevo la sala d’attesa piena di pazienti accaldati e proprietari innervositi. E lei se ne stava in un angolo, sorridente e tranquilla. E non aveva animali. Mentre facevo accomodare Jean Jacques (vi ricordate di lui? Primo racconto, per gli smemorati) per il controllo mensile, le chiesi se era lì solo per fissare un appuntamento, nel qual caso avrei potuto farlo subito, liberandola dall’attesa. Mi rispose che aveva un po’ di domande e che avrebbe aspettato volentieri. Non la definirei solo bella, direi anzi che a colpire, più del suo aspetto era la serenità che emanava. Ritornai alle miei visite, ma ogni volta che lasciavo entrare un nuovo cliente, mi domandavo quali fossero i dubbi tanto importanti da convincere la padrona di pet più paziente che avessi mai visto a non desistere. Finalmente arrivò il suo turno, la feci accomodare e le chiesi di parlarmi del problema. Laura (che non si chiama così ovviamente) mi rispose chiedendomi se avevo un macchina per fare esami radiografici. “Naturalmente!” le risposi ignaro. “Bene, allora dottore mi deve aiutare”. Campanello d’allarme: iniziai a pensare ad una situazione incresciosa di diagnosi fatta altrove e non condivisa dal cliente il quale, abbandonato il veterinario di sempre, ne cerca uno che possa cambiare le carte in tavola. Intendiamoci: un parere esterno può essere molto utile, ma deve seguire delle norme etiche che qui, visto il tono di segretezza che andava assumendo la conversazione, stavamo per calpestare alla grande. Laura infatti mi stava raccontando di aver perso fiducia nei medici, che si contraddicono continuamente, che mettono sempre in dubbio la buona fede del paziente e vogliono avere sempre l’ultima parola sulla malattia. Ecco, ci siamo! Ora le chiedo la natura del problema e il nome del collega che ha in cura il suo cane o gatto che sia, almeno posso chiamarlo subito ed evitare di fare un danno ancora più grande. “insomma Alessandro - posso chiamarti Alessandro (anche no) - bisogna che tu mi faccia una radiografia al torace, perché ho una costola rotta, ma non voglio più tornare in ospedale”.

…avrei preferito dover difendere cinquecento colleghi. L’immagine fiabesca mi crollò davanti agli occhi e invece della impaurita fanciulla da salvare, mi trovai di fronte una gatta da pelare non male. Si perché alla affermazione: “abuso di professione”, Laura non fece una piega: “ma tanto resta tra noi” disse, “la radiografia la lascio a te e la puoi tranquillamente buttare. Voglio essere solo tranquilla che tutto stia andando bene!”. Certo. E io non vorrei andare in prigione!!
Ragionammo per circa altri venti minuti prima che mi venisse in mente la più galattica delle balle: “Laura guarda, ti aiuterei volentieri, ma le macchine per veterinaria, emettono radiazioni a dosaggi molto più bassi di quelle per le persone, del resto gli animali sono molto più piccoli. Nel tuo caso la radiografia risulterebbe illeggibile”. Mi guardò come se le avessi detto che il sole gira attorno alla terra, ma fece finta di accettare la pietosa scusa. Era ancora incerta mentre ci salutavamo, ma infine mi chiese: “Quindi se mio figlio dovesse avere bisogno, visto che ha 8 anni, te lo posso portare?”.

venerdì 25 luglio 2008

La settimana enigmistica




Forse non tutti sanno che...


"Dottore, ma l'antibiotico scioglie il corpo?"
"No signora, quello e' l'acido"

"Dottore, ma per fare l'anestesia alla mia Sissy me la intuba?"
"naturalmente"
"Ah no! Allora la porto da quell'altro veterinario che le fa una punturina e via!"

Nb: l'anestesia con intubazione e' una tecnica che offre garanzie di sicurezza molto più elevate rispetto a quella senza, in quanto consente un controllo più tempestivo dell'attivita' respiratoria...

Scovate la differenza

"Signora, la gatta deglutisce?"
"No dottore, ingoia e basta"

"Il suo gatto e' castrato?"
"No no dottore, l'avete sterilizzato voi 4 anni fa!"


La sfinge

(ovvero: ma che avranno voluto intendere...)

"Vede signora, il suo cane ha un forte dolore sul posteriore, e per questo non riesce a più a mantenere la stazione eretta".

"....mh...e...con questa terapia che mi ha prescritto, Billy dovrebbe riuscire ad avere un'erezione decente?"

"beh questo non lo so, ma probabilmente riuscirà a stare in piedi"



"Allora, che terapie sta facendo il suo gatto al momento?"

"Minou prende le pasticchine per la pressione e per i reni: la furosemide e il ...il...ah si: il domopak!"

martedì 22 luglio 2008

Sempre vigile!


A volte mi chiedo perché. Perché ogni volta che hai detto di voler fare il veterinario tutti hanno risposto: “che bello”, “che meraviglia”, “beato te, sempre in mezzo agli animali..”. perché mai nessuno ti ha chiesto: “ma sei sicuro? No, perché conosco un tizio, che è amico di un tizio che sa di un tale, la cui sorella ha un gatto e il marito di lei dice che il loro veterinario fa una vita d’inferno!”.

Almeno uno lo sa e si prepara. come si dice...ci fa pace!

Per esempio: ieri, domenica, tornavo da Perugia, da casa dei miei, ero a pochi chilometri ormai da Firenze e pensavo alle braci nel mio giardino, già in preparazione per accogliere un’orgia di pesce. DRIIIIIIIIIN (se ci fate caso è piuttosto ricorrente nei miei…resoconti).
Ora, le compagnie telefoniche, quelle che progettano e costruiscono i telefoni, inseguono tecnologie assolutamente futili: io vorrei un telefono che mi faccia capire in anticipo se è opportuno rispondere o meno. Magari cambiando colore. Tipo: Verde? Tutto ok, la persona che sta chiamando non trasmette tracce di stress; via libera, rispondi pure. Giallo: mh…non sono sicuro: c’è dello stress, ma forse è solo un tipo nervoso. Rispondi a tuo rischio. In fine Rosso: buttami. Più lontano che puoi! O perlomeno NON RISPONDERE!!
Se avessi avuto un telefono del genere, domenica sera sarebbe diventato rosso, incandescente e, probabilmente, si sarebbe autodistrutto per proteggermi. Ma non è andata così: il mio telefono fa le foto, i video, fa sentire la musica e vedere film e TV, ti dice se sbagli strada, meglio: sa sempre dove devi andare. Ma non ha nessuna capacità predittiva sull’umore di chi sta chiamando.
Torniamo al driiin: cliente in attesa, rispondo. “Pronto?”. “Alessandro sono Renata, perdonami, ma Otello è appena tornato dalla passeggiata e starnutisce a più non posso”. In questa stagione purtroppo un messaggio del genere equivale a: “il mio cane ha un forasacco nel naso”. Una di quelle insulse spighette con cui giochi da piccolo…poi da grande le cose cambiano: se possiedi un cane o devi curarlo, inizi ad odiarle.
Allontanai con dolore i pesci dalle mie priorità e dissi a Renata di aspettarmi in ambulatorio. Il tempo di riportare Jules a casa ed eccomi di fronte ad Otello. Un labrador nero tutto lingua e grasso. Naturalmente neppure l’accenno di uno starnuto e quasi avevo voglia di mettere la testa sotto la sabbia e aspettare altri sintomi, ma quella narice sinistra appena arricciata non lasciava presagire nulla di buono. Cinque minuti e Otello russava saporitamente sul mio tavolo visite. Iniziai ad esplorare la narice destra, perlustrando ogni minimo anfratto dei turbinati. Tutto era rosa ed appariva come doveva essere. Entrai dunque nella narice sinistra, dove invece imperversava una guerra: le mucose erano congeste, gonfie, lo spazio libero ridotto al minimo ed iniziava un lieve sanguinamento. Non faticai comunque molto a trovare il colpevole: un minuscolo forasacco ben piantato tra i turbinati. Lo afferrai con decisione e lo estrassi. Il tempo di controllare che non ci fossero altri frammenti e Otello fu libero di risvegliarsi. Incredibile: ancora in tempo per il pesce!!! Le ultime raccomandazioni e spedii Renata e un traballante Otello a casa. Chiusi l’ambulatorio, ringraziai mentalmente per la sfacciata fortuna (errore) e mi diressi verso casa. Tutti erano in giardino a banchettare quando arrivai. Raccontai l’inconveniente (le disavventure dei veterinari agli occhi degli altri sembrano sempre magnifiche avventure…ecco il guaio!). Avevo appena iniziato a mangiare quando il telefono squillò nuovamente. Attimi di panico. Guardai il numero, ancora Renata: probabilmente aveva bisogno di qualche chiarimento. “Pronto!” – Alessandro sono di nuovo Renata, scusami ma ho paura che anche Yago abbia qualcosa nel naso, ha iniziato a starnutire come Otello – E qui, a costo di annoiarvi è bene fare un piccolo inciso: si deve sempre dosare con precisione il terrore da infondere nei proprietari. Troppo poco e si befferanno dei tuoi avvertimenti, un pizzico di troppo e quello che poteva essere rimandabile a domani diventa un’emergenza.
“Mi hai detto – proseguiva intanto Renata – che non è mai opportuno aspettare in caso di forasacco e quindi mi sono permessa di chiamarti. Non è che potresti vedermelo?”. Tra gli occhi interrogativi dei miei ospiti mi alzai e mi rimossi verso l’ambulatorio. A Yago non concessi il beneficio del dubbio: quando arrivai, lui era già sul marciapiedi che mi aspettava starnutendo. Subito a nanna, estratto il forasacco, il tutto in 25 minuti netti ed eccomi ad aspettare che il mio paziente fosse in grado di tornare a casa sulle sulle sue zampe. Non ci avevo messo più di 40 minuti e quando tornai a casa, mentre tutti ormai fumavano davanti ai caffè, io abbracciai il vassoio dei pesci e feci man bassa di quanto era rimasto. Di nuovo in pace col mondo mi rilassai ed ero a perorare la causa di Goldrake versus Mazinga (figuriamoci) quando il telefono squillò di nuovo. E se fosse stato un telefono come vorrei io, questa volta sarebbe arrossito sul serio, almeno per la vergogna: per la terza volta Renata cercava di mettersi in contatto con me. Quando metto in anestesia un cane e poi lo risveglio, mi tengo in allerta per le successive 12 ore, figuriamoci se i cani sono addirittura due! Eppure quando vidi il numero ormai familiare sul display del telefono, fui colto da una fitta d’ansia ancora più dolorosa. Mancava ancora Ofelia. Voi non ci crederete mai e non vi biasimo: sembrerebbe assurdo persino a me, eppure 15 minuti dopo questa telefonata ero di nuovo in ambulatorio ad estrarre un forasacco dal naso di Ofelia.
- Che fai? Il veterinario? Che bel lavoroooo

giovedì 22 maggio 2008

Figli di Eva


Quando ero piccolo credevo di essere unico. Ritenevo che il mio modo di pensare fosse assolutamente irripetibile ed originale.
Crescendo ho iniziato ad osservare con scetticismo derisorio gli studi statistici, i "modelli comportamentali". Idiozie. Le MIE reazioni sono legate alla MIA personale esperienza, al MIO assolutamente unico modo di ragionare. E nessuna legge di massa potrà MAI prevedere il mio modo di interagire col mondo.
...crescendo ancora ("maturando" mi sembrava improbabile, "invecchiando" impronunciabile!) ho iniziato a notare, con sempre maggiore disappunto, che di fronte allo stesso avvenimento, ci comportiamo come le sardine di uno sterminato banco: tutti nello stesso modo. E quando, dal parrucchiere come dal medico, faccio uno stupido test su una rivista buttata lì con le altre, mi trovo classificato in 20 parole insieme a tutti gli altri "tra 1 e 20" o "a maggioranza di risposte C".
Che poi alla fine è anche consolatorio sapere che un sottile filo ci unisce, sepolto in qualche infinitesima molecola di DNA, pronta a reagire se dobbiamo disegnare un serpente o descrivere un'isola deserta.
A pensarci bene, questo "catalogare" le persone è un'esigenza innata in ciascuno di noi e assume anche una notevole utilità talvolta. Nel mio lavoro per esempio, ho scoperto che l'esame clinico e l'intero approccio al paziente seguono meccanismi diversi a seconda della tipologia di cliente che ho di fronte. Si, perché i proprietari possono essere anche diversissimi tra loro, ma si possono praticamente ricondurre tutti a tre categorie:

ANSIOSO
(dialogo avvenuto alle 2 del mattino)
DRIIIIIIIIIIIIIIIIIIN
Io: "Clinica veterinaria mi dica?"
Lui: "Stiamo calmi!!!!" e butta giù il telefono
Dopo 5 minuti
DRIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIN
Io: "Clinica veterinaria mi dica?"
LUI: "Bene, ora possiamo parlare..."

OSTILE
Io: "....dunque, beve molto?"
Lui: "Non lo so. penso che berrà"
Io: "Bene...mangia? E che cosa?"
Lui: "Si, boh, penso di si. Quello che capita"
Io: "Va di corpo?"
Lui: "E che ne so! Va fuori"
Io: "La pipì?"
Lui: Ma le ho detto che va fuori!"
Io: "Magari su questo sarà più preparato: è vaccinato?"
Lui: "E che ne so, se ne occupa mia moglie"
Io: "...e possiamo chiederglielo?"
Lui: "Si, ma non credo che lo sappia"
"...occheeeei..."

METICOLOSO
"Dovevo venire ieri per il vaccino annuale ma non ho potuto. Dobbiamo ricominciare tutto daccapo?"

"Questa notte ho notato che il cane respirava meno del solito: ho contato 8 respiri al minuto, con un minimo di 5 e un massimo di 11. Alle 3 però non ce l'ho fatta più e sono dovuto andare a letto (con tono molto colpevole)"

"Oggi Billy è andato di corpo 2 volte invece delle solite 3. Pesando le deiezioni ho visto che più o meno siamo comunque nella media, mi devo preoccupare?" ...beh, se pesa regolarmente le feci del suo cane, SI, deve preoccuparsi...

mercoledì 14 maggio 2008

Laila BIS


Non vorrei dare l'impressione che Laila sia proprio un cane sconsiderato. E' solo che i ricordi che affiorano la mettono sempre in ridicolo. Per esempio, quando abitavo ancora a Perugia, avevamo una mega stufa ipertecnologica. Una di quelle che si accendono da sole, si alimentano da sole, si spengono da sole (ovviamente non si puliva da sola, ma in compenso si sporcava tantissimo, da sola). La stratosferica stufa in questione raggiungeva temperature d'esercizio altissime ed aveva una finestra di vetro temperato che lasciava ammirare una fiamma piena e luminosa. Quasi ipnotica.
La casa, anche questa piuttosto sperduta in campagna, tendeva ad essere gelida e quindi la stufa lavorava sempre a pieno regime durante l'inverno. Per la felicità di Laila: il freddolosissimo cane adorava starsene a crogiolare di fronte al calore della fiamma in vetrina. Generalmente controllavo che non trascorresse troppo tempo a scaldarsi, ma il giorno che mi è tornato alla mente ero ritornato a casa dopo una tirata di ventidue ore a lavoro. Ero stravolto e crollai sul divano appena entrato in casa. Tanto più che tutto era in ordine: Nadja pensava alla piccola Julia (che aveva circa sei mesi) intenta a spalmare la sua pappa sulle pareti della cucina e Laila ammirava la fiamma a distanza (a posteriori) sconsiderevolmente ravvicinata. Dopo cinque minuti dormivo ormai il sonno del giusto e sobbalzai quando un enorme tonfo mi svegliò: Laila, completamente "cotta" dal calore, era crollata a terra, svenuta, rigida come un cane imbalsamato, ma con l'estatica espressione: "così voglio morire". Ormai la stufa non è più con noi e, forse proprio per questo, Laila ancora si.

Dizionario medico



La malattia è tabù. Non fingetevi stupiti: della malattia non si può e non si deve parlare, a meno che non si tratti di una forma rarissima, complicatissima e curabilissima. Unica eccezione: si può parlare delle malattie altrui.

E nel parlarne c'è uno strano gusto estetico che riguarda la scelta dei termini che si possono pronunciare e quelli che, invece, sono assolutamente da evitare. In loro vece vengono usati giri di parole fenomenali, che non ho ancora capito se servano davvero a ridurre l'imbarazzo di chi parla o (e sono più incline a credere alla seconda ipotesi) se si prefiggono l'alto scopo di non far capire nulla al malcapitato medico di turno. naturalmente poi, il tutto viene pronunciato quasi sottovoce: "dottore, il gatto va alla cassetta, ma non riesce a fare le sue cose".

In ormai 8 anni di professione ho, per esempio, scoperto che la parola "feci" è off limits. "Quella grossa", "ha sporcato", persino "la porcheria" sono preferibili. Per non parlare della "gatta in caldo", che mi fa venire in mente una ricetta vicentina di gatto in umido.

Poi ci sono sciarade, sinonimi inesistenti e frasi in codice. forse il proprietario in quei casi pensa di essere una giovane marmotta oppure crede di stringere con il medico una sottile intesa privata. Una volta per tutte: noi non capiamo mai!! Non so, per esempio, cosa avesse in mente un giorno una signora quando mi telefonò per dirmi: "Dottore, al mio gatto gli trezzeca un dente" - come scusi? - "ah no, scusi lei: in realtà gli dringola". - Ah ecco...

giovedì 1 maggio 2008

Meraviglie dal mondo

Ci sono persone capaci di esprimere le proprie emozioni con l’arte. Capaci di vedere il bello nascosto nelle cose del mondo e poi tradurlo, in musica, colori, parole.
Io, zoppo, sono convinto di poterla vedere, la Bellezza, ma poi non sono capace di spiegarla. Come quando ho una parola sulla punta della lingua: so quasi che vorrei dire, ma alla fine la parola difetta e mi rimane dentro.
Oggi mi hanno portato in visita un gatto. Nero. Sette chili. Grande. Bello come il cielo la notte. Trovato in un giardino, forse scappato, forse abbandonato. E lui non mi conosceva. Non conosceva neppure bene chi me lo ha portato; eppure se n’è stato lì, sul tavolo visite, a fare le fusa, tranquillo. E si è fatto “punturare” (per dirlo come mia figlia) persino, senza smettere di vibrare di piacere. E trasmetteva una incondizionata serenità e una incrollabile fiducia da ricordarmi quanto bello può essere il mondo che abitiamo.


PS: cerca casa…forse si faceva pubblicità?

ricordi...d'inferno

A volte le circostanze ci costringono ad avere un rapporto conflittuale con i nostri compagni quadrupedi. Si perché non è mica detto che il cane sia sempre il migliore amico…o comunque anche i migliori amici possono dimostrarsi delle vere carogne. E tanto più siamo indifesi, tanto è più vera questa affermazione.
Prendete i bambini: ce ne sono alcuni che sviluppano con il cane di casa un rapporto di reciproca soddisfazione. Mia figlia, per esempio, quando iniziò a mangiare, smise di essere per i miei cani la sirena impazzita che può accendersi senza preavviso e divenne, piuttosto, un distributore ambulante di cibo. Dapprima inconsapevolmente, un semplice seminacibo passivo: durante la pappa, bastava un paziente assedio al seggiolone per avere la certezza di raccogliere qualcosa. Poi Julia ha compreso che, per far partecipare Laila e Pedro agli estenuanti tea danzanti di bambole e peluche, è sufficiente tirare fuori un pezzo di pane e centellinarlo sapientemente per tutta la durata del gioco. Oggi direi che l’equilibrio non pende a favore di nessuno: i due cani senza fondo hanno la garanzia dello spuntino pomeridiano e Jules si è assicurata due instancabili compagni di gioco che rimarranno nei suoi ricordi.

Ma ci sono bambini o ex tali che non conservano degli animali della propria infanzia un ricordo perfettamente felice. “Quel piccolo bastardo” è l’epitaffio più ricorrente sulle lapidi mentali dei miei clienti che ripensano al passato. Chi è stato abbandonato nel bel mezzo di una rissa, chi si è visto preferire un osso. Quello che mi diverte di più è il “cane bullo”.
Immaginate un omone di cinquant’anni e cento chili. Lo conosco da anni ed ho in cura da sempre il suo Jack Russell. Ma durante le visite in ambulatorio finiamo ormai sempre col parlare di Vasco, il primo cane di cui l’omone abbia memoria. “Dottore, lei non sa quello che ho patito per colpa di quel beeeeeeeeeeeeep beep beeeeeeep di uno spinone. Da piccolo avevo un appetito robusto (maddai?!) e quindi i miei erano attenti a razionarmi il cibo. La merenda del pomeriggio era sempre un panino con la salsiccia cruda (un razionamento crudele direi!)...sa, s’era gente umile di campagna (invidia invidia invidia: il panino con la salsiccia crudaaaaa). Estate o inverno che fosse il panino mi veniva consegnato sulla soglia di casa e mi era fatto divieto rientrare in casa finché non l’avessi finito, per non “sbriciolare” sul pavimento. Il fatto è che Vasco imparò presto questa routine e mi aspettava paziente fuori casa. Appena mia madre spariva, lui arrivava scodinzolante, senza che neppure capissi come staccava di netto mezzo panino e se ne andava lasciandomi come un ebete a fissare quel mozzicone di merenda che mi restava. Provai a dirlo a mia madre qualche volta e ne ho ricevuto sempre la stessa risposta: - un po’ di dieta non ti fa certo male! - … Dottore non mi giudichi: io quel cane lo odiavo!”.
…E io non giudico ma, per come quell’uomo grande e grosso parla di Vasco, neppure ci credo.

giovedì 24 aprile 2008

La befana vien di notte


Durante il primo anno a Firenze, abitai a 50 chilometri, in piena montagna. Nel bosco, anzi: nel Bosco (avete google earth? Casomai lo prendete QUI. Fatto? Bene: latitudine: 44° 2'22.57"N longitudine: 11°17'15.01"E). Per diversi chilometri solo la mia casetta. Rientrare a notte fonda mi creava sempre un certo disagio. Specie per quegli ultimi cinquanta metri da percorrere a piedi in un fitto d’alberi che avrebbe terrorizzato anche la strega di Blair!
Eppure raggiungere quelle quattro mura sperdute era guadagnare il riposo. Le rare volte che mi colse un’emergenza me le ricordo bene. La più…vergognosa risale all’epifania del 2004. Era circa l'una di notte. Avevo appena finito di riempire le calze di dolci quando mi squilla il telefono: “Dottore la Kira ha iniziato a partorire, ma il cucciolo spunta ogni tanto dalla natura (la vagina, per capirci) e poi rientra dentro”. A quel punto avevo già raggiunto la macchina (bosco o non bosco) e mi proiettavo verso casa di Kira. Conoscevo bene i proprietari: un’anziana coppia di contadini gentili e premurosi fin nel DNA. E innamorati di quel bellissimo springer che ora tentava per la prima volta l’avventura del parto. E mentre percorrevo i cinquanta chilometri mi ripassavo il protocollo delle distocie, pensavo a come organizzarmi per il cesareo, a chi far rianimare i neonati. Arrivai trafelato a casa dei due coniugi e mi precipitai dentro. Chiesi subito acqua calda e sapone (lo sanno tutti che servono sempre in un parto) e mi feci portare da Kira. Quaranta minuti erano trascorsi dal momento della telefonata al mio ingresso nella “sala parto” e già tre meravigliosi cuccioli di springer se ne stavano, lavati e asciugati, comodamente intenti a brindare alla vita col primo latte di mamma. Rimango sempre stupito dalla semplicità con cui la Natura affronta concetti per noi tanto complicati. Ma quella volta mi stupivo soprattutto di quanto avessi sopravvalutato la mia presenza. E il bosco? E i cinquanta chilometri? E il fatto che fossero le 2 di notte?! Dovevo fare qualcosa! Presi l’acqua calda e il sapone, esplorai il canale del parto e trovai l’ultimo cucciolo che si avvicinava a grandi passi verso l’ ”uscita”. Appena mi fu possibile lo afferrai delicatamente ed aiutai Kira a partorirlo, sotto gli occhi stupefatti dei proprietari, ammirati da tanta abilità. Naturalmente quel cucciolo sarebbe uscito anche da sé ma io, allora, che ci stavo a fare?!

Dopo aver verificato lo stato di salute di mamma e cuccioli, chiesi di potermi lavare le mani. Appena finito iniziai a rimettere in ordine gli attrezzi nella mia borsa. “Dottore venga, dopo tanto lavoro bisogna che si rifocilli!”. Non ho mai letto malizia in quelle parole, ma fino al terzo bicchiere di grappa rimasi appena insospettito. Dal quarto in poi smisi di pensarci.

martedì 22 aprile 2008

Alla memoria


È con dispiacere estremo che do la notizia della scomparsa del cane più rompiballe del mondo. Spentosi da poco durante un attacco fatale di abbaio selvaggio.
Cous Cous, cane bassotto, mascotte, miracolato, mendicante senza fondo, mordacissimo, impietosa sveglia notturna.
Si presentò in clinica circa otto anni fa. Aveva sette anni e un’ernia cervicale che lo rendeva tetraplegico. Il legittimo proprietario, rifiutato l’intervento, aveva chiesto l’eutanasia. Noi lo operammo proponendo l’adozione. Come primo ringraziamento Cous Cous assestò, durante la mensile degenza, svariati morsi a ciascuno di noi. E mano a mano che riprendeva forza sulle zampe, i suoi assalti si facevano più efficaci. Finalmente il periodo di gabbia e punture finì e Cous Cous divenne il compagno notturno di ognuno di noi. Quando la clinica esauriva il lavoro diurno, il tremendo bassotto prendeva in custodia il medico di guardia, divideva con lui la cena e si sdraiava ai suoi piedi come il più fedele dei cani. Mi ci ha fregato diverse volte: tutto compreso nella sua parte di miserabile aspettava la pietosa carezza per avere la mano a portata di bocca. Piccolo bastardo!
Nella sua carriera Cous Cous vanta anche un avvelenamento da dicumarolo. Si salvò soltanto perché le 280 pillole di antidoto che dovette assumere in tre settimane sapevano di cioccolato.
Ha attentato alla salute cardiaca di tutti noi con puntuale determinazione quando, simultaneamente al campanello delle emergenze notturne, partiva all’assalto abbaiando come cento cani (i peggiori risvegli della mia vita…fin’ora). Ed è paradossale che dopo tanti tentativi di farci morire d’infarto, proprio in uno di questi accessi abbia deciso di restarci secco lui.
E tante volte, di notte come di giorno, è stato al nostro fianco, a darci conforto nel lavoro e compagnia nel silenzio, senza mai lamentarsi per la sveglia, il freddo, il poco sonno. E qualche volta, preziosa, si è anche lasciato accarezzare

martedì 15 aprile 2008

Torno subito

In questi giorni non c'è mai tempo per scrivere con calma, ma ho un video da condividere.
Cattivissimo, ma mi piaceva troppo...me lo hanno mandato oggi. Spero solo di non violare nessun copyright...in tal caso non ne ero cosciente...e poi fa troppo ridere

martedì 8 aprile 2008

Di nome e di fatto..




A volte l’intervento del veterinario esula dalla medicina a tal punto da sconfinare in altre professioni. Mi chiedo se questo tipo di disagi colpisca anche i medici “umani”, ma lì forse è meno plausibile che si renda utile la figura del “Dott. Falegname”. A me è capitato circa un mese fa. Mattinata fitta di appuntamenti, durante una delle ultime visite ricevo una telefonata allarmante: “Dottore, non è che avrebbe una sega?”. “Prego?! -rispondo già sapendo che non sarà una giornata facile- Si una sega, sa, la mia gatta ha il vizio di nascondersi sempre dietro il lavandino in cucina ed è rimasta incastrata nel mobile. Sono già due ore che si lamenta e cerca di uscire, ma non riesco proprio ad aiutarla. L’unico modo sarebbe di segare la staffa del mobile e disincastrare la micia..” (silenzio speranzoso)...io purtroppo una sega ce l’ho e quindi tra lo sconcertato e lo sconcertatissimo appunto l’indirizzo della signora, sbrigo l’ultima visita e mi incammino verso l’ennesima follia lavorativa della mia vita. Arrivato sul luogo mi rendo conto che nessuno aveva esagerato: la gatta era effettivamente incastrata e non c’era verso di smuoverla. Il mobile della cucina poi: un pezzo unico di 45 metri di lunghezza, ancorato come fosse stato parte della casa da sempre. Smontiamo le ante del lavandino con la padrona di casa e decidiamo il punto di “attacco”, distante 20 centimetri dalla gatta, per evitare numeri di magia mal riusciti. Così, mentre la signora tranquillizza il felino, io inizio a demolire la costosissima cucina. Da mancino posso dire con ragione che il razzismo dei destrorsi è qualcosa di indecente: rannicchiato in una posizione improbabile, mi trovo a tagliare l’unica cucina di legno massello, utilizzando un arnese che dall’impugnatura in avanti è pensato esclusivamente per un destro. Dopo mezz’ora di sudore e fatica infernali avevo appena intaccato la staffa da tagliare. La gatta più che preoccupata mi guardava incuriosita e nonostante tutto la situazione non poteva che essere divertente. Un mal di schiena e 20 minuti dopo la situazione era già meno simpatica e il pezzo di legno d’acciaio ancora piuttosto saldo. Chiedo una pausa e la signora rilancia di un caffé. Arrivato ormai allo zucchero, mentalmente pronto a surclassare Ercole e le sue ridicole fatiche, vedo la gatta che scivola sinuosa dalla presunta trappola e, con la nonchalance tipica dei felini, si dirige tranquilla verso la ciotola.




Del resto la gatta si chiama Diabolika.

sabato 5 aprile 2008

Distratti si, però...



I gatti maschi, non me ne vogliano perché mi considero uno dei loro più convinti estimatori, secondo me hanno tuttavia un odore un po' troppo penetrante. come dire...praticamente una puzza nauseabonda. E chi si è trovato colpito da una "marcatura" felina sa certamente di cosa parlo. Questa caratteristica è particolarmente forte nei maschi "interi", quelli che invece vengono castrati (e nei gatti di casa è praticamente la norma), quell'odore martellante si attenua fino a scomparire. Per questa decisa tendenza ad avere animali castrati o "neutralizzati" (dovendo tradurre letteralmente dal più onesto inglese) quando un gatto è molto "profumato" ci facciamo immediatamente caso. E così accadde che un giorno, entrando nella clinica dove lavoravo, mi chiesi come facesse a resistere il proprietario della puzzola che doveva essere già in qualche sala visita, visto che io avevo difficoltà a sopportare il terribile odore a metri di distanza. Lasciai l’anticamera e mi diressi verso lo spogliatoio, lungo il corridoio delle sale visita carpii un brandello di conversazione: "…siamo un po' preoccupati perché le nostra due gatte, sorelle, hanno 2 anni e da qualche tempo hanno iniziato a manifestare atteggiamenti promiscui, tanto da abbandonarsi a scene di amore saffico (beh, loro non dissero esattamente così)".

ATTENZIONE! Non me la potevo certo perdere una cosa del genere: entrai con la scusa di salutare Melania (la mia collega che già non sapeva più a quale santo votarsi per non esplodere in una risata) e rimasi a godermi la visita. "e già che ci siamo dottoressa, la più piccina sembra ingrassare a vista d'occhio negli ultimi tempi". Abbandonata ogni speranza di serietà, sghignazzando tra noi, aprimmo la gabbia alla ricerca della facile conferma: la sorella più grande vantava un apparato sessuale maschile di tutto rispetto, mentre la più piccina fu sottoposta ad esame ecografico e la causa dell'obesità si dimostrò essere l'ingombrante presenza di 3 feti quasi a termine gestazione.La coppia di proprietari non ebbe il minimo sgomento; entrambi accolsero la notizia con un grandissimo sollievo: "Avevamo così paura che stessero male".

venerdì 4 aprile 2008

Grasso è bello ma...


Lindo è un pastore australiano di rara giovialità. Uno di quei (pochi) cani che, se avesse una coda, la agiterebbe anche per il veterinario. Ha ormai 6 anni ed è stato per me un grattacapo non da poco.
Quando lo conobbi, cioè all’inizio di questa storia, Lindo pesava 38 kg. Aveva da tempo abbandonato le sembianze di una mortadella a quattro zampe, per abbracciare l’immagine di una cassapanca. Devo dire che la cosa non lo disturbava affatto: la mole non gli impediva di fare le 3 cose che amava di più: mangiare, fare festa a qualsiasi essere vivente e partecipare alle settimanali passeggiate montanare con la sua famiglia. Corpulento, ma felice. Solo che l’obesità non è uno stato di grazia e io sono cattivissimo a riguardo. Così, convinti i proprietari (quattro tra mamma, papà e due “sorelle” maggiori, Flavia e Caterina), iniziammo il “progetto dieta” su un ignaro e scodinzolante Lindo. 6 mesi di tentativi portarono ad una impietosa collezione di insuccessi clamorosi: per tutto il tempo della dieta il largo pastore non accennò neppure una volta a perdere peso. Eppure le avevamo tentate davvero tutte: prodotti del commercio, cucina casalinga, integratori e farmaci.


Niente da fare; Lindo continuava ad ostentare i suoi 38 kg ad ogni visita di controllo. Fu durante uno di questi incontri che, scaturì l’idea (purtroppo non mia, ma di Flavia). Partimmo dall’istinto: Lindo, come ogni pastore, aveva ed ha un poderoso senso del gregge, tanto che nelle escursioni di fine settimana (un vero appuntamento fisso per tutta la famiglia) costringeva il gruppo a mantenere il passo “comodo” della mamma, per timore di perdere qualche componente. L’idea di Flavia (visto? Non ho rubato la paternità) consisteva quindi nello “scompattare” la famiglia, durante le camminate nella speranza che, colto da istinto, Lindo iniziasse a fare la spola tra le due sorelle e i genitori, incrementando così l’esercizio fisico. Oggi Flavia e Caterina partono 20 minuti dopo i genitori e, quando li raggiungono, Lindo ha già percorso un bilione di volte la distanza tra i due gruppi di montanari. Certo, mangia ancora come una cassapanca, ma pesa 29 chili e anche come mortadella inizia ad essere poco credibile.

martedì 1 aprile 2008

Vittima e carnefice



Che esistano animali considerati infestanti è un dato di fatto. Che questi animali possano davvero essere una piaga per chi ci deve fare i conti è altrettanto noto.
Zanzare, cavallette, formiche, topi.
Topi. Tutti inorridiamo all’idea di un roditore indesiderato che fa “razzia” delle nostre scorte di formaggio. E le aziende di settore, di questo nostro orrore si nutrono, inventando sistemi quanto mai elaborati (ed efferati) per disfarci degli invasori. Ma un elemento che non viene preso in considerazione MAI o quasi, in questi sistemi di sterminio è che a volte il carnefice fa marcia indietro dal proprio intento di epurazione. E può succedere. Anzi succede o meglio: successe una mattina di qualche anno fa quando, entrando in ambulatorio, trovai in sala d’attesa un viso particolarmente ansioso. Un signore che apparentemente non aveva condotto a visita il proprio animale, ma aveva un inquietante sacchetto di plastica accanto a sé. Bianco. Ad un’osservazione appena più accurata mi resi conto che il sacchetto si muoveva sommessamente. Mi cambiai in un lampo: qualsiasi animale ci fosse, sicuramente la permanenza in una busta di plastica non gli avrebbe giovato particolarmente. Feci accomodare subito il cliente che, un po’ imbarazzato, quando gli chiesi quale fosse il problema, senza pronunciar parola, estrasse una tavoletta di legno dove annaspava tra la colla un topolino di 4-5 centimetri. Dopo qualche istante di silenzio imbarazzato per entrambi, il cliente mi disse che si era pentito di aver messo in casa una trappola tanto crudele e mi chiedeva di salvare quel povero topino che probabilmente in quel momento stava mentalmente implorando che qualcuno salvasse il pezzo di formaggio (anch’esso incollato) pochi centimetri più in là; ancora oggi me lo immagino prendere la parola per dire: “non pensate a me: salvate lui salvate LUI!!!!”. In buona sostanza ammetto di aver fatto una filippica al pover’uomo che forse neppure immaginava quanto potesse essere brutto veder morire un animale ma il tempo stringeva: la colla moschicida (o ratticida…solo il nome dovrebbe far venire i brividi) faceva sempre più presa, cosicché assolsi dopo averlo condannato (in entrambi i casi senza diritto) il malcapitato conduttore del topo e con Andrea (collega che ancora mi manca per la serenità con cui affrontava ogni avventura) iniziammo un intervento che mai avrei creduto tanto ingrato: se costruissero le case con quella dannata colla, credo che non ci sarebbe più bisogno di ristrutturazioni. La prima operazione fu quella di inserire una tavoletta metallica tra topo e legno, da quella riuscimmo a disimpegnare il povero topo che, a titolo di vendetta, mordeva qualsiasi dito gli capitasse a tiro. A quel punto sottoponemmo il mantello del roditore a corroboranti frizioni di olio d’oliva, alcool etilico e sapone. In circa 4 ore il topo sembrava appena uscito da un salone di bellezza, cotonato e imbellettato. A quel punto Andrea ed io ci prendemmo una meritata pausa per cercare un’oasi felice (e lontana da abitazioni rischiose) per il povero roditore. Lo liberammo e ci saremmo aspettati una fuga a perdifiato, invece il topino (probabilmente per gli effetti dell’alcool, che tra le altre cose lo aveva reso moooooooolto più collaborativo dell’inizio) si guardò “felice” attorno, annusò l’aria e cominciò a passeggiare allegramente tra il fogliame, alzandosi ad annusare l’aria forse per capire dove si trovasse o, magari, per assaporare l’insperata conclusione di quella terrificante avventura.



Per il formaggio purtroppo non ci fu nulla da fare.

martedì 4 marzo 2008

Questione di vita o di morte!

Per questo piccolo racconto devo tornare con la memoria alle prime incoscienti esperienze notturne nella clinica in cui ho iniziato la professione. Immergermi nuovamente in quelle sensazioni strane che assalgono quando ti trovi a camminare per le stanze vuote, dell’ambulatorio, attento a verificare che tutto sia in perfetto ordine per l’emergenza (non mi devo addormentare!!) che appena chiudo gli occhi arriverà per certo. Quelle stesse stanze che di giorno sono troppo piccole, affollate di persone e animali, la notte si ammantano di un silenzio irreale, gli spazi si dilatano. Credo che la stessa sensazione la potrebbe dare un supermercato vuoto..
Ancora un giro per verificare che i macchinari siano tutti accesi: gli alleati pronti a dare il proprio contributo quando infine (Non devo chiudere gli occhi!!) attirerò l’emergenza cedendo alle lusinghe di Morfeo. Non ci devo pensare, ancora un giro di verifica. I farmaci d’emergenza sono ben allineati e promettono di farsi trovare quando dovrò evocarne la magia. Ok ok è tutto DAVVERO in ORDINE. Posso chiudere e tornare di sopra. Lascio una luce accesa, la guida quando dovrò scendere freneticamente sotto i colpi di campanello dell’emergenza (non azzardarti a dormire: puoi esserne certo: lei è lì che ti spia. Aspetta solo che tu chiuda gli occhi).

Alla fine mi decido, chiudo il portone dell’ambulatorio, affretto il passo sulle scale perché è l’una, fa anche un po’ freddino. Arrivo alla stanza del medico di guardia, la stufina elettrica sta facendo il suo lavoro egregiamente e mi siedo sul divano. Ho con me un paio di libri, che le notti tranquille servono anche a studiare. ATTENZIONE!! Accendo la tv che c’è la maratona di Star Trek, quello con Kirk. Sono salvo! L’attenzione è assicurata e tanti saluti a Morfeo. Supero in scioltezza il primo episodio (che da piccolo mi faceva paura e ora mi viene da ridere a guardare quei ridicoli costumi…ma in fondo un po’ di paura me la fa ancora e sono contento!). Beh però ora mi metto comodo e mi sdraio nel sacco a pelo. Inizia il secondo episodio e io inizio a sentirmi intorpidito, ma ce la faccio ancora a restare sveglio: è Star Trek! Scivolo in un sogno in cui sono membro dell’equipaggio e va alla grande: questa notte ci scappa anche un viaggetto nello spazio. All’improvviso succede qualcosa e parte la sirena sull'Enterprise. Solo che il rumore non somiglia affatto all’allarme dell'enterprise. Suona più come un telefono. Oh cavolo!! No! Mi sono addormentato!!
Svegliati svegliati svegliati!
Apro gli occhi a fatica, cercando punti di riferimento, o il telefono non lo troverò mai. Schiarisco 10 volte la gola per evitare di sembrare uno zombie, guardo l’orologio…sono le 3 e mezza, mi preparo al peggio: torsione gastrica? Un cesareo? Crisi epilettica! Trauma da investimento, no sarebbe successo prima...beh magari l’hanno ritrovato solo ora. “Clinica veterinaria, mi dica” (rispondo col tono di uno sveglio e affaccendato e intanto sudo freddo). “Si dottore mi scusi il disturbo, ma ho visto sul libretto che il mio cane doveva fare il richiamo la settimana scorsa. Potrei venire domani mattina a fare la puntura?”

mercoledì 20 febbraio 2008

Trucchi del mestiere

Ogni professione nasconde mille insidie quotidiane che nessuno insegna ad affrontare. Piccole e grandi difficoltà che richiedono capacità di adattamento ed improvvisazione, come dimostra la difficile situazione di oggi: stavo per sottoporre Lucky ad una ecografia
...ma non avevo contemplato l'elemento coda...

Per fortuna tutto si è risolto per il meglio!!

martedì 5 febbraio 2008

Il gatto invisibile

Che i gatti siano dotati di superpoteri è indubbio. C’è chi dice vedano cose che noi non percepiamo, chi pretende una certa preveggenza e molto altro. Io sono incline a credere che il gatto possieda poteri magici, ma mai avrei creduto che tra questi rientrasse il dono dell’invisibilità, almeno non prima di conoscere “Io”.

Il gatto “Io” vive con il fratello “Tao” presso una deliziosa famiglia poco lontano dal mio ambulatorio. Per la stazza dei due felini, sono io a recarmi a casa loro piuttosto che smuovere la montagna verso di me. In una delle mie visite fui testimone dell’evento che ho battezzato: “La sparizione felina” (dovreste leggerlo con voce tuonante e spaventevole). Pioveva quando finii le visite del giorno ed iniziai il giro delle domiciliari, vista la vicinanza decisi di andare a piedi, ombrello munito. Entrai in casa e riposi il mio alleato contro la pioggia in un grande vaso accanto alla porta. Venni fatto accomodare in cucina dalla proprietaria: lì avrei visitato e vaccinato i due gatti. Tao si presentò impavido e curioso alla visita ed iniziai con lui, mentre marito e moglie cercavano Io. Finii l'esame clinico, iniettai il vaccino e spedii un serafico Tao verso la ciotola del cibo. I padroni di casa invece rientrarono nella stanza visibilmente preoccupati: da nessuna parte c’era traccia di Io. Ho dimenticato di dire che l’appartamento dei miei clienti è al secondo piano di un piccolo palazzo. Niente terrazze né balconi, finestre sempre chiuse…un bunker praticamente. L’unica spiegazione era che il micio fosse fuggito per le scale al mio arrivo. Improbabile, ma possibile.
Perlustrammo inutilmente tutto il palazzo e rientrammo infine sconfitti. Cercammo ancora, questa volta in modo sistematico, dentro casa. O V U N Q U E. Negli angoli più bui, sotto i mobili. Niente. Era come se in quella casa ci fosse sempre stato solo un gatto. I proprietari erano sconcertati, mentre io dissimulavo tranquillità, dicendo che “Io” sarebbe riapparso, appena “io” fossi sparito.
Indugiai ancora qualche minuto, ma alla fine mi arresi alla sparizione.
Non restava che prendere le mie cose ed andare a mettermi in attesa davanti al telefono. Raccolsi siringa usata, oto e fonendoscopio, chiusi la borsa e mi mossi verso la porta.
Quando ripresi l’ombrello dal grande vaso all’ingresso mi trovai “fissato” da due occhi enormi che brillavano attraverso il collo del portaombrelli. Immobile il gatto affrontava la propria sconfitta.
“Io!” esclamai tra le risate dei proprietari (tutti i presenti erano decisamente sollevati, io per primo). Il povero gatto rispose con un poco convinto “miao”. “Per tanta astuzia – proseguii – meriteresti clemenza”.
Ma lo vaccinai lo stesso..

lunedì 4 febbraio 2008

Ci vuole stomaco!!



Di questa storia parlo con una punta di amarezza, un po' perché mi riporta ai convulsi giorni prima della laurea (nostalgiaaaa), un po' perché il protagonista, poco dopo gli eventi che vi racconterò, se n'è andato a causa di un incontro automobilistico troppo ravvicinato.
Il nostro eroe è Tetsuya, gatto nero con il petto bianco, a pelo lunghissimo, muso appuntito. Occhi verdi. Bellissimo. Un gatto quasi privo del senso della sazietà.
Abitavamo all'epoca, al pian terreno di una bifamiliare. la cucina aveva una strettissima finestrella, quasi su misura per un gatto. E Tetsuya la usava volentieri per autoinvitarsi, soprattutto durante le sessioni culinarie di mia madre. Quello che davvero piaceva al diabolico felino era sgraffignare il cibo e poi indugiare sul luogo del delitto con aria innocente, segretamente compiaciuto delle proprie prodezze di ladro. Sono due gli eventi emblematici a riguardo, tra l'altro molto vicini nel tempo.
Eravamo a pochi giorni dal mio ultimo esame (giugno del 1999) e quindi io ero barricato in casa a studiare quando, con la coda dell'occhio, vidi un polpo che passeggiava sul nero pavimento del corridio. Per quanto sia vero che il caldo e la tensione giocano brutti scherzi, un polpo a spasso per casa non rappresenta un'allucinazione plausibile. Mi alzai di corsa intuendo cosa stesse accadendo e colsi Tetsuya in flagranza di reato: il nero gattone aveva rubato dal lavandino della cucina un polpo che mia madre aveva appena lavato e ora cercava un luogo tranquillo dove far sparire la preda...nel proprio stomaco. il polpo fu invece recuperato dal sottoscritto e, a patto di collegare questo evento con il successivo, se ne desume che Tetsuya imparò la lezione, mia madre e io no! trascorsero infatti pochi giorni e, ciabattando per le stanze della casa recitando ad alta voce tutte le malattie infettive del cavallo, notai una larga macchia nera su uno dei divani. Una macchia non inconsueta visto che Tetsuya veniva quasi quotidianamente a proteggersi dalla calura estiva in casa nostra, ma questa volta era insolitamente immobile; mi avvicinai per osservare meglio il felino e mi sorprese l'assoluta apatia con cui questi si fece toccare, spostare persino! Qualcosa non andava e , essendo ormai prossimo alla laurea, elaborai mentalmente una apocalittica lista di diagnosi differenziali. Tetsuya nel frattempo mi guardava implorante aiuto. Provai a testare il suo appetito con una fetta di prosciutto cotto (si! e lo rifarei!!) e mi vidi respingere l'offerta con espressione quasi disgustata. Inutile di re che mi sentii morire: se Tetsuya rifiutava il cibo doveva essere successo qualcosa di grave. Ero ancora lì che cercavo di capirci qualcosa, quando rientrò mia madre la quale, appena entrata in cucina chiese: "che fine ha fatto il carpaccio di manzo che avevo messo a scongelare? era quasi mezzo chilo!".


Mi sarebbe piaciuto finire qui il racconto ma ci sono ancora un paio di cose da dire: quella è stata l'ultima volta che vidi Tetsuya vivo e, sebbene non fosse il "mio" gatto, non so dirvi quanto mi manchi ancora oggi e (questo è il ricordo che conservo più volentieri), dopo circa tre ore di "coma digestivo", il gatto si riprese e mangiò di buon grado il prosciutto cotto...

martedì 29 gennaio 2008

il miglior cane..

Pedro (qui in veste seria) è un…cane a parte. E io di cani me ne intendo! No no! Non c’entra nulla che si tratti del mio cane (beh si, un po' c'entra). Pedro è il miglior cane del mondo.
E lo si capisce da una serie di indizi incontrovertibili.
Immagino sappiate tutti che tutti i dalmata sanno ridere (qualcuno canta anche) e quindi non è certo questo che fa di Pedro il cane più simpatico del mondo. Lui non solo ride, ma fa anche ridere (cosa molto più difficile). Per esempio, la mattina si avvicina al letto, con fare circospetto, fingendo di essere un cane che passava lì per caso, ma in realtà studia con attenzione le mie reazioni, se per caso commetto l’errore di guardarlo e sorridere, il cane più bravo del mondo si teletrasporta (perché un salto sarebbe intercettabile e bloccabile) al mio fianco. Cercando, con successo di occupare il minor spazio possibile. Poi succede una cosa strana, tipo macchia d’olio Pedrino si “dilata” fino ad occupare praticamente l’intero letto e a quel punto assume l’espressione alla: “non è una goduria?”.
Le sue espressioni in effetti rasentano l’umano: quando viene colto sul misfatto ad esempio sarebbe da Oscar. Pedro (il cane più bravo del mondo) è uno scienziato sperimentale e secondo me sta cercando di trasfigurare le 3 dimensioni di un sacchetto della spazzatura nelle due dimensioni di una superficie, come il pavimento della cucina per esempio. I risultati sono sempre eccellenti, ma lui non è ancora soddisfatto a quanto pare e continua a provare provare e ancora provare. E ogni volta che torno a casa e lo trovo tranquillamente adagiato sulla cuccia, con faccia noncurante, circondato da plastica sminuzzata, alluminio, fondi di caffè e quant’altro, sembra quasi offeso e sconcertato dal fatto che attribuisca a lui la responsabilità!
Potrei raccontare di quando, scappato nel bosco, dopo una notte passata a cercarlo, quando ormai il freddo e la disperazione stavano avendo la meglio l’ho visto sbucare da una macchia tutto contento per avermi trovato casualmente lì, ma non rende giustizia comunque al fatto che Pedro è senza dubbio il cane migliore del mondo.

lunedì 28 gennaio 2008

A ognuno il suo

Non sarei corretto se non parlassi anche dei miei animali. Prendiamone uno a caso. Laila. Con me da 7 anni ormai, è un cane particolare: in tutto il tempo che abbiamo vissuto insieme ha tentato di mettersi nei guai circa un fantastilione di volte. E sempre in modi sorprendenti, mai banali. Senz’altro l’episodio più divertente risale all’agosto di 6 anni fa (2002). Ero in Austria a trovare gli zii montanari. Un posto sperduto nel bel mezzo del paradiso, una casetta deliziosa, il cui fiore all’occhiello è un giardino che lo zio cura con attenzioni maniacali e, devo dire, ricambiato appieno da piante rigogliose, libellule che danzano intorno al laghetto. Davvero uno splendore. Ma un giardino richiede attrezzi e nel nostro caso questi trovano riposo in due (!!) piccole rimesse di legno, collocate nella porzione a nord del giardino, quella dove gli alberi prevalgono sulle piante in fiore. Il terreno, siamo in montagna, non è pianeggiante e le due casette poggiano infatti su sei piedini in legno ciascuna, di lunghezze differenti, così da apparire come mini palafitte. Ma lo spazio tra casa e terreno è davvero limitato.
La giornata era splendida e mi stavo preparando ad affrontare la tavola imbandita di qualsiasi cibo inventato dall’uomo. Cose leggere, come la Rostenbraten o i Knödel.
Quando ci sedemmo per mangiare, mi resi conto che Laila mancava all’appello ormai da un po’, soprattutto in presenza invece di tanto cibo! Provai a chiamarla e ne ebbi in risposta un lamento lontano proveniente da un punto imprecisato del giardino. Ci alzammo tutti per soccorrere il cane in pericolo e la trovammo piangente, ben incastrata sotto una delle due rimesse per gli attrezzi. Probabilmente seguendo la traccia di qualche animale si era addentrata sotto la casetta e poi si era spinta verso una via d’uscita troppo angusta. Del povero dalmata spuntava solo il muso con gli occhi imploranti per un intervento soprannaturale. Fu necessaria una manovra decisamente poco veterinaria: scavare una buca sotto la rimessa per consentire a Laila di trarsi in salvo. Archiviato l’evento ci dedicammo al pranzo, Laila compresa.
Venne il tanto temuto momento del dolce (capace di mettere in ginocchio anche un professionista della tavola) e mi resi conto che Laila era nuovamente scomparsa. Ma questa volta nessun lamento seguì al mio richiamo. Tra il curioso e il preoccupato mi alzai faticosamente a cercarla. Mi diressi spedito alla rimessa: sicuro di conoscere il mio cane, ero convinto di trovarla di nuovo sul luogo del misfatto. Sbagliavo.
Eppure…con la trepidazione che accompagna il presentimento mi diressi a grandi passi verso l’altro capanno. E lì mi trovai di fronte al noto spettacolo. Questa volta però gli occhi di Laila non erano imploranti, piuttosto sembravano dire: “E’ piuttosto imbarazzante, se non ti dispiace tirami fuori di qui e lasciamoci questa storia alle spalle!”.

domenica 27 gennaio 2008

93!

A volte non stupiscono solo gli animali. Ci sono persone che possiedono una scintilla di straordinario. E quando si ha la fortuna di conoscerle, bisogna conservare con cura il ricordo, tenerlo sempre a portata a di mano, che potrebbe servire.
Due giorni fa rispondo al telefono, una signora, dalla voce desumo anziana, mi chiede se posso visitare uno dei suoi gatti che all’improvviso non sta più bene. Fisso quindi un appuntamento con la signora per il pomeriggio e vengo riassorbito dalla routine. Puntuale, al primo appuntamento del pomeriggio, la signora si presenta con il gatto che, scopriamo, soffre di una grave insufficienza renale e si trova ancora ricoverato presso il mio ambulatorio. La signora, durante la visita, mi chiede se non potrei visitare anche l’altro suo gattino, ma a casa questa volta, perché proprio non riesce a catturarlo. Mi rendo disponibile per il giorno successivo. E così ieri, finite le visite del mattino, ho chiuso l’ambulatorio e sono andato a casa della signora. Il gatto era scappato e, nella vana attesa che rientrasse la padrona di casa mi ha fatto accomodare. Io che sono curioso di natura, dopo anni a contatto con gli animali credo di aver sviluppato dei comportamenti tipici di cani e gatti: esploro come posso ogni ambiente in cui mi trovo. E la casa della anziana signora profumava di grandi cose. Capii presto perché: raggiunto il salone, mi trovai di fronte un vecchio pianoforte a mezza coda. Talmente vecchio all’apparenza che chiesi alla signora da quanto tempo lo avesse. Beh l’età precisa non l’ho ottenuta, in compenso la signora, di 93 anni, come ha avuto a raccontarmi, mi ha confessato di essere stata una concertista e su mia insistenza ha suonato un pezzo “facile” che per me, sarebbe volentieri un punto d’arrivo. A quel punto, tra l’estasiato e il divertito per la personalità spumeggiante di questa signora, che vive da sola con i suoi gatti, suona il piano tutti i giorni e guida la macchina, le ho chiesto come se la cavasse nel traffico sempre crescente. La risposta? “Il traffico non è un problema. Il fatto è che lo scorso anno ho rottamato la mia 126 e ora guido una 600, ma sa dottore? È troppo scattosa!”

mercoledì 23 gennaio 2008

il cane...venduto

Pepe è, con buona approssimazione, il primo cliente che ho ereditato dal veterinario che mi ha preceduto in questo ambulatorio. È un cane meticcio di taglia media, agile e vispo.
Molto vispo.
Mi è oltremodocaro perché è anche uno dei pochi pazienti che sale volentieri sul tavolo visite. Ne è quasi entusiasta. Quando lo incontro per la strada, durante le sue passeggiate, è routine che faccia rischiare la vita alla proprietaria per lanciarsi a salutarmi. E maggiore è la distanza che ci separa, maggiore è l’enfasi con cui mi corre incontro. Mai creduto fosse merito dei biscottini che ho con me e che a lui dispenso con estrema soddisfazione.
Fu quindi con un certo disappunto che mi trovai un giorno ad incontrare Pepe e padrona lungo la strada che porta al mio ambulatorio, non accompagnato dalla scena a cui ero ormai abituato (e mia di diritto!!) di cane-trainante-signora. Il peloso traditore anzi, mi dedicò due o tre movimenti di coda poco convinti e alle mie carezze si scansò sdegnoso, facendo intuire alla proprietaria che preferiva proseguire nella passeggiata. Sfortuna volle, per di più, che non avessi una scorta di biscotti con me. Ci scambiammo uno sguardo perplesso con la proprietaria e dopo un frettoloso saluto i due ripresero la via, mentre io rimasi ad elaborare teorie che giustificassero un tale comportamento. Decisi che Pepe aveva fiutato qualche cagnolina in amore e archiviai la questione.
Alcuni giorni dopo incontrai nuovamente Pepe e la scena si ripresentò nella sua sconcertante nuova versione. Estrassi allora, come estrema ratio, un biscotto dalla tasca. Pepe lo mandò giù senza entusiasmo e guardò la proprietaria speranzoso. Voleva andare via!!! A quel punto, forse mossa a compassione, con un sorriso non privo di malizia, mi rivelò: “Sa dottore, non ce l’ha con lei, è solo che più avanti il fornaio gli regala una castagnola!!”. Feci mente locale che in effetti eravamo a febbraio con il carnevale alle porte...mi strinsi nelle spalle, etichettai scherzosamente il mio cliente preferito come “traditore” e con la morte nel cuore rientrai in ambulatorio.
Passò un po’ di tempo e arrivò la primavera. In uno dei primi giorni finalmente tiepidi dell’anno, scorsi da lontano un cane che correva su due zampe, trattenuto dal guinzaglio di una signora decisamente in difficoltà. Era Pepe che si produceva in una scena da film, pur di raggiungermi. Fui ben felice di riappropriarmi di tutte quelle feste e premiai Pepe con carezze a mai finire e un paio di biscotti che il cane sembrò gradire non poco. La proprietaria strizzandomi l’occhio disse: “beh, dottore, carnevale è finito e il fornaio le castagnole non le fa più!”. Io mi godevo il ritorno del figliol prodigo e fui attraversato da un lampo di egoismo quando, con tono serio e posato, per il suo bene, proibii i dolci a Pepe da allora in avanti. Del resto lui non smise di scodinzolare festoso…

martedì 22 gennaio 2008

JJ Vs Rocco

L’ultimo forse, in ordine cronologico, e quindi il più vicino alla memoria, tra i miei supereroi preferiti è Jean Jacques, orgogliosamente gatto persiano. Dopo 4 giorni e 3 notti trascorsi ininterrottamente insieme per un coma diabetico ha piano piano iniziato a riprendersi, tanto che dopo 10 giorni dal suo ricovero è stato possibile mandarlo a casa. Dopo un primo periodo di controlli assidui a domicilio, ho iniziato ad allentare un po’ la “presa” sulla malattia. È stato quindi con una certa apprensione che ho risposto alla telefonata della sua proprietaria, dopo almeno sette giorni dal nostro ultimo contatto precendente; più o meno è andata così:

IO … Pronto?
LEI Si, sono la proprietaria di Jean Jacques (pausa drammaticamente lunga…tipo 2 secondi) volevo solo riferire che sono alla finestra e guardo il mio gatto che scopa in giardino…”.
IO (pensato)…il mio dovere qui è finito!