venerdì 15 giugno 2012

A Cesare quel che è di Cesare

Il succo del discorso era piuttosto facile: non avevo la minima idea di cosa avesse il cane. Febbre non c'era, d'accordo. Dolori localizzabili? Nessuno. Chiaro. Esame clinico compatibile con la sindrome di Rubik: tutto perfettamente normale. Ma il cane non mangiava. Da due giorni. Per il resto non c'era nulla di preoccupante. Almeno questa era la versione per i proprietari. I quali invece preoccupati lo erano davvero. E convinti che io non stessi facendo granché. In effetti un pacchetto esami completo, radiografie, ecografie, terapia sintomatica, ore sul paziente e ORE sui libri più diverse offerte votive contribuivano a produrre un conto in grado di coprire il budget annuale di un piccolo stato. Ma in fatto di risultati, in effetti, stavo davvero ottenendo ben poco.  Eppure quel malefico rottweiler sembrava il ritratto della salute. Mantello lucido, perfettamente idratato, muscoloso come avrei voluto essere io, pieno di energia come in una vita precedente ero stato. Umore sempre eccellente: ringhiava dal momento in cui saliva sul tavolo e smetteva dopo aver girato l'angolo della strada del mio ambulatorio. Io invece perdevo 10 anni di vita ogni volta che lui mi minacciava di morte certa.  Al quarto giorno consecutivo di digiuno, lui sembrava un fiore, io uno zombie: barba incolta, pensieri paranoici di incompetenza maxima e una bandiera bianca che volteggiava nel cervello. I clienti entrarono con aria afflitta e vagamente sfiduciata, segnale che presi con aplomb inglese: feci mentalmente testamento professionale e lasciai salire sul tavolo un sanissimo cane feroce che aveva iniziato a promettermi una morte dolorosa dalla sala d'attesa. Raccolte le informazioni sulle ultime 12 ore, decisi di eseguire una nuova radiografia; che non si potesse dire che non avevo lasciato nulla di intentato. Sdraiai il cane sul tavolo dell'apparecchio radiografico e mi preparai a ricevere in cambio un paio di morsi. Stranamente il cane decise di collaborare e, a parte un costante ringhio profondo di quelli che ti fanno ricordare i punti salienti della vita, non attentò ulteriormente alla mia salute. Scattai la radiografia e la misi nello scanner per lo sviluppo. Attesi i 40 secondi necessari a processare l'immagine e la ingrandii sullo schermo mentre già pensavo a come dire ai proprietari del paziente che, come sempre, non c'erano segni di alcun tipo. Quindi, nel momento in cui alzai lo sguardo sul monitor rimasi attonito. I proprietari mi recuperarono dalla sindrome di Stendhal non senza difficoltà. Semplicemente me ne stavo. In piedi, di fronte a quel monitor, a fissare uno stomaco pieno di cibo. Bene. Tre giorni prima non c'era, quindi nessuna occlusione. Ma allora perché avevo ancora quella faccia inebetita da somaro? E diavolo! Io avevo fatto diagnosi di cane in buona salute, quindi avevo ragione io. Erano i proprietari ad avermi fornito un'anamnesi totalmente sbagliata. Mica potevo seguire il cane e scoprire (come in seguito venne fuori), che il cane faceva colazione, pranzava, finanche cenava dal casiere dei proprietari la cui madre imbottiva di nascosto la feroce creatura! Io sono un medico, non un detective. Mentre che un proprietario non si fosse accorto di nulla, a parer mio, non stava né in cielo né in terra. Non sarei stato certo io a fare una filippica a quei due scriteriati disattenti, ma di sicuro non aveva più senso quella loro sfiducia. Quando spiegai pertanto che mancavano gli elementi fondamentali per la diagnosi, visto che il cane aveva indiscutibilmente mangiato, la risposta dei proprietari, lo sapevo, mi avrebbe ripagato di tutta la loro supponenza: "In pratica dottore, ci faccia capire: lei ci ha fatto spendere un patrimonio perché non sa neppure capire se un cane mangia o meno?!" Appunto. 

venerdì 8 giugno 2012

Della morte dell'amore



Voglio parlarvi di un aspetto della professione tanto umano quanto forse poco edificante. Un aspetto che, credo, accomuni tutti i medici da prima linea. Come recita un telefilm che adoro "dermatologo in greco significa medico inutile" quindi se parlo di medici da prima linea intendo quelli le cui scelte, tutti i giorni o solo occasionalmente, fanno l'immediata differenza tra la vita e la morte del paziente. 
Quindi non i dermatologi.

Oscar è un gatto. Un gran bel gatto. Un sacro di Birmania. Enorme. Giovane. La sua proprietaria vive per lui. Acquistato poco dopo la morte del figlio. Non è una bella cosa da spiattellare su carta, viola diversi diritti alla privacy e qualsiasi regola mai esistita in fatto di buon gusto. Ma non è un dettaglio trascurabile. 
Oscar, dicevo, è un gatto che ha sempre goduto di ottima salute, mai un problema nei suoi primi cinque anni. Ma l'anamnesi non perdona. Oscar è oggetto di profondo amore. In lui è riversato il ruolo di gatto, figlio, compagno. E questo ruolo Oscar lo ha assolto appieno. Mai distante più di un metro dalla sua padrona. Sempre presente nel dolore, nella malattia di lei, un cancro al seno. Finché un giorno Oscar decide di non farcela più. E arriva nel mio ambulatorio in fin di vita per una grave difficoltà respiratoria che, 2 minuti e una radiografia dopo essere entrato in visita si trasforma in gravissimo edema polmonare. Così Oscar muore. Poco dopo averlo visitato. Ma un medico aspetta quel momento ogni giorno della sua professione. Perché vincere la morte equivale a confrontarsi con una divinità. E la tentazione è così grande...tanto che quel medico dice di no. Intuba il gatto in arresto respiratorio. Inizia a ventilarlo manualmente e nel frattempo armeggia come la dea kalì. Accende il ventilatore polmonare, collega una fonte di ossigeno e i monitor paziente. E 3 minuti dopo una macchina pompa efficiente aria nei polmonidi Oscar. Le sue mucose virano dal blu a un sano rosa e il tracciato elettrocardiografico pieno di blocchi e aritmie ritorna regolare e forte, quasi fosse disegnato. Che miracolo la resuscitazione. Viene facile capire il perché un umile Cristo sia così famoso. Che sensazione di onnipotenza. Dire no! Alla morte in persona. Affrontarla fissandone lo sguardo e avere il coraggio di rimandarla indietro a mani vuote. 
Già. Che miracolo. 
Ma ora Oscar deve stabilizzarsi per poi migliorare, ricominciare a respirare da solo, guarire e tornare a casa ad assolvere ancora una volta il suo compito di spugna. Assorbire il dolore immenso di una donna sola e restituirle indietro aria pulita, felice. 
Solo che Oscar non ne ha alcuna intenzione. E il medico, io, lo guardo faticare per compiere ogni singolo respiro. Tre giorni dopo e una nuova radiografia e Oscar non ha più edemi nei polmoni. Il suo torace è cosparso di piccole stelle bianche, schegge luminose sfuggite ad un cuore pulsante di malata determinazione: un carcinoma primario nel pancreas. E così Oscar ha una buona scusa per morire di nuovo. 
Libero dal dolore finalmente. Libero da un ruolo che probabilmente non voleva rivestire.
E questa volta il medico, io, non osa raccogliere la sfida. non oso. Non c'è sensazione di onnipotenza che mi alletti. Solo un nuovo incontro con la morte. Che non mi ricambia lo sguardo beffardo. Non mi schernisce per la sicumera. Piuttosto mi sorride amara, come chi sa di non essere benvoluto, neppure quando viene solo per portare sollievo.