sabato 20 dicembre 2008

I quattro dell'apocalisse..

 Che il nostro non sia un lavoro convenzionale lo si comprende facilmente: la malattia non dà tregua e l’emergenza sa scegliere orari e luoghi spesso originali, addirittura bizzarri. Per questo nessuno di noi si stupì più di tanto quando, alle 20 circa, con le mani di Federico e Simonetta (i miei impagabili amici/collaboratori) ben affondate nella pancia di un paziente e i miei occhi fissi sui monitor di anestesia, arrivò una telefonata: dal convento di Arezzo, suor non mi ricordo come si chiama, amica carissima di Federico, ci comunicava trafelata che il gatto più anziano della loro nutrita colonia aveva improvvisamente iniziato a mostrare problemi di respirazione dopo un lauto pasto a base di pollo e delle di lui ossa. La diagnosi non era difficile: con molta probabilità uno di quei vendicativi ossetti, non avendo più alcuna ragione di vita, aveva deciso di piantarsi nella gola del carnefice, nella speranza di portarlo con sé a miglior vita. Il povero osso, però, non aveva considerato che i paladini della felina salute (noi) non conoscono resa né riposo. Così ognuno di noi, lo confesso: segretamente compiaciuto della propria indispensabilità, sbuffando e lamentandosi della sorte (bisogna pur darsi un contegno) si preparò al salvataggio in trasferta. Nell’occasione potevamo per di più avvalerci dello “straniero”: l’amica medico umano che non vedeva l’ora di osservare i “cugini” veterinari all’opera sul campo. Terminato l’intervento, mentre io mi assicuravo che il paziente si risvegliasse tranquillo nel ricovero dove lo avevamo trasferito, Federico e Simonetta iniziarono i preparativi per l’emergenza aretina. Verso le 21 ci mettemmo in macchina con grande dispiego di mezzi, noi deplorando la cattiva sorte, la “cugina umana” tutta eccitata per la novità. Arrivammo sul posto (bellissimo) verso le 22.30, dopo aver coperto più o meno due anni luce di “stradina” bianca che, con molta probabilità, non era ancora mai stata calpestata da un mezzo senza cavalli. Parcheggiammo e scaricammo: la macchina di anestesia portatile con i suoi monitor, DUE endoscopi con telecamera, fonte di luce e monitor, il set chirurgico, la cassetta dei farmaci da emergenza; il necessario insomma per approntare un ospedale da campo che nemmeno la crocerossa! Ci caricammo tutto addosso mentre Federico ci blandiva con promesse di cena luculliana che suor qualcosa ci avrebbe volentieri offerto alla fine. A pieno carico sembravamo i Ghostbusters. Faticosamente ci trascinammo all’interno del convento attraverso il parco infinito (bellissimo) annesso. Suor come si chiama ci venne incontro sorridente (certo! Lei aveva già mangiato) e solo appena turbata dalla mobilitazione di cose e persone che uno stupido ipotetico osso poteva aver provocato. “Federico, come sei stato gentile a venire, non vorrei averti disturbato troppo”.

Ora: io stazzo 100 chili su un metro e novantatrè, diciamo pure che le due dottoresse fossero nascoste dalle borse e scatole che trasportavano, Federico è l’UNICO che abita ad Arezzo: con queste informazioni è facile dedurre che Suor mannaggia non mi ricordo il nome difetta di un’obiettiva capacità di analisi, o quanto meno dovrebbe rivedere il suo concetto di captatio benevolentiae! Sorvolando sul mio lieve essere permaloso, Suor…macomesichiama?!? Ci condusse in uno degli annessi del maniero (dove tra parentesi abitano 4 suore) e intanto “ci” raccontò: “vedi Federico, Lillo è con noi da 10 anni, gli siamo tanto affezionate. Solo che lui ha un carattere così difficile con gli estranei (ci mancava il gatto stron…bisbetico: siamo pur sempre in un convento!): si agita molto e si mette subito sulle difensive (che in proprietaresco significa più o meno: vi salterà alla gola e farà di voi coriandoli; non ne uscirete vivi!). Federico incrociò lo sguardo degli altri 3 convenuti e abbozzò un rassicurante sorriso (porca vacca: ci siamo dimenticati la gabbia di cattura!). Nel varcare la soglia dell’annesso (due cantine piene di marmellate, enormi), visto che i monasteri hanno porte rubate di fresco alle casette dei puffi, sbattei una sonora capocciata e a malapena riuscii a ricacciare in gola lo sproloquio che saliva spontaneo con grandi occhiatacce di tutti, tranne di Suor cosetta che continuò a sorridere…beffarda forse. “il gatto, continuò lei, è stato chiuso dentro il bagnetto dei bimbi (quei poveretti che sfidano ogni settimana l’impervia strada per fare catechismo) ed è lì che lo abbiamo lasciato mezz’ora fa. Ti prego Federico fai attenzione: è davvero un birbante!”.

Per dovere di cavalleria, dopo aver caricato in siringa una dose di anestetico per stendere un cavallo, Federico e io scivolammo nella stanza da bagno richiudendo subito la porta. Al centro della stanza, con gli occhi più tranquilli del mondo, un gatto tigrato ci accolse, senza manifestare alcun disagio.

Ecco io non posso definirmi una persona paziente, ma ho la presunzione di capire quando le sto per prendere di santa ragione da un animale e nessuno dei miei campanelli mentali stava suonando quindi, mentre Federico invocava prudenza, mi avvicinai a Lillo, lo accarezzai e gli iniettai un decimo dell’anestetico che avevo preparato. In 30 secondi il gatto ronfava tranquillo sul pavimento. Gli misi sotto una copertina e, mentre l’eroe del convento iniziava a montare l’endoscopio (e dovete credermi: ci vuole il suo tempo), io curiosai in bocca del felino……………………………………. Ci volle ancor meno che a scrivere questi puntini: una MINUSCOLA vertebra di pollo alloggiava dietro un molare del plateale gatto e mi ci volle un nanosecondo a toglierla. Tornai trionfante da Federico che stava bilanciando il bianco della telecamera dell’endoscopio…se avesse potuto, credo, mi avrebbe sepolto vivo. Gli spettatori che nel frattempo si erano intrufolati nella stanza erano a quel punto impegnati a rotolarsi a terra per le risate, tranne suor cosa lì, che se ne uscì con queste testuali parole: “Federico! Non so proprio che dire: sono così sollevata, che dire: sei il nostro salvatore!”. E se lì il direttore generale del convento, dalla sede distaccata nei Cieli l’avesse fulminata per blasfemia, io credo che avrei sogghignato, ma sorvoliamo: il punto è che IO ero il salvatore. IOOO!!!. Bene! Mi sarei vendicato mangiato le scorte annuali del monastero. 

La povera sorella passò ai convenevoli e ci chiese con raffinate circonlocuzioni quanto ci doveva per il disturbo e noi ci schernimmo: avevamo deciso in partenza che quello sarebbe stato un lavoro pro bono. Iniziammo dicendo che era stata una sciocchezza: si vabbè il viaggio, si vabbè l’ora tarda, la strada impervia, l’intervento di 4 medici, la fame galattica, ma in fondo era pur sempre un piacere fatto ad un’amica di uno di noi…un pasto frugale sarebbe bastato!

Detto fatto: la sorella, non certo mia, tirò fuori quattro vasetti di marmellata dicendo: “prendete queste: le facciamo noi e sono naturalissime, come piccolo segno di gratitudine”. In buona sostanza: ok grazie e fuori dalle balle, che è tardi. Gli sguardi che colpirono Federico ora erano piuttosto penetranti, taglienti e spero dolorosi! Senza battere ciglio ricaricammo arnesi e macchina, ripercorremmo la strada, ancor più odiosa dell’andata e concludemmo il glorioso salvataggio al primo autogrill, mangiando uno striminzito panino…spero almeno che agli inferi ci sia un girone per le ossa di pollo!