venerdì 8 giugno 2012

Della morte dell'amore



Voglio parlarvi di un aspetto della professione tanto umano quanto forse poco edificante. Un aspetto che, credo, accomuni tutti i medici da prima linea. Come recita un telefilm che adoro "dermatologo in greco significa medico inutile" quindi se parlo di medici da prima linea intendo quelli le cui scelte, tutti i giorni o solo occasionalmente, fanno l'immediata differenza tra la vita e la morte del paziente. 
Quindi non i dermatologi.

Oscar è un gatto. Un gran bel gatto. Un sacro di Birmania. Enorme. Giovane. La sua proprietaria vive per lui. Acquistato poco dopo la morte del figlio. Non è una bella cosa da spiattellare su carta, viola diversi diritti alla privacy e qualsiasi regola mai esistita in fatto di buon gusto. Ma non è un dettaglio trascurabile. 
Oscar, dicevo, è un gatto che ha sempre goduto di ottima salute, mai un problema nei suoi primi cinque anni. Ma l'anamnesi non perdona. Oscar è oggetto di profondo amore. In lui è riversato il ruolo di gatto, figlio, compagno. E questo ruolo Oscar lo ha assolto appieno. Mai distante più di un metro dalla sua padrona. Sempre presente nel dolore, nella malattia di lei, un cancro al seno. Finché un giorno Oscar decide di non farcela più. E arriva nel mio ambulatorio in fin di vita per una grave difficoltà respiratoria che, 2 minuti e una radiografia dopo essere entrato in visita si trasforma in gravissimo edema polmonare. Così Oscar muore. Poco dopo averlo visitato. Ma un medico aspetta quel momento ogni giorno della sua professione. Perché vincere la morte equivale a confrontarsi con una divinità. E la tentazione è così grande...tanto che quel medico dice di no. Intuba il gatto in arresto respiratorio. Inizia a ventilarlo manualmente e nel frattempo armeggia come la dea kalì. Accende il ventilatore polmonare, collega una fonte di ossigeno e i monitor paziente. E 3 minuti dopo una macchina pompa efficiente aria nei polmonidi Oscar. Le sue mucose virano dal blu a un sano rosa e il tracciato elettrocardiografico pieno di blocchi e aritmie ritorna regolare e forte, quasi fosse disegnato. Che miracolo la resuscitazione. Viene facile capire il perché un umile Cristo sia così famoso. Che sensazione di onnipotenza. Dire no! Alla morte in persona. Affrontarla fissandone lo sguardo e avere il coraggio di rimandarla indietro a mani vuote. 
Già. Che miracolo. 
Ma ora Oscar deve stabilizzarsi per poi migliorare, ricominciare a respirare da solo, guarire e tornare a casa ad assolvere ancora una volta il suo compito di spugna. Assorbire il dolore immenso di una donna sola e restituirle indietro aria pulita, felice. 
Solo che Oscar non ne ha alcuna intenzione. E il medico, io, lo guardo faticare per compiere ogni singolo respiro. Tre giorni dopo e una nuova radiografia e Oscar non ha più edemi nei polmoni. Il suo torace è cosparso di piccole stelle bianche, schegge luminose sfuggite ad un cuore pulsante di malata determinazione: un carcinoma primario nel pancreas. E così Oscar ha una buona scusa per morire di nuovo. 
Libero dal dolore finalmente. Libero da un ruolo che probabilmente non voleva rivestire.
E questa volta il medico, io, non osa raccogliere la sfida. non oso. Non c'è sensazione di onnipotenza che mi alletti. Solo un nuovo incontro con la morte. Che non mi ricambia lo sguardo beffardo. Non mi schernisce per la sicumera. Piuttosto mi sorride amara, come chi sa di non essere benvoluto, neppure quando viene solo per portare sollievo.

1 commento:

MartaO' ha detto...

Complimenti Ale, leggerti è un piacere!