Quando entrai in casa dei miei clienti, il gatto alzò la sonnacchiosa testa dal divano, mi guardò imperturbabile e si rimise a dormire. -bene, pensai- almeno è collaborativo. Il che alle quattro del mattino non guasta. I suoi proprietari mi avevano chiamato ininterrottamente dalle due, xchè quello stesso serafico animale, che ora se ne stava placido a godersi il sonno del giusto, non aveva fatto altro (a detta loro massimo fino a cinque minuti prima) che miagolare come un ossesso per tutta casa, correndo a tratti, rintanadosi, saltando e contorcendosi in aria. Avevo cercato di rinviare la visita al mattino, ma alla quarta telefonata avevo capito che di dormire ormai comunque non se ne parlava più, quindi tanto valeva eliminare il dubbio di una pericolosa ostruzione uretrale (“eh dottore, va fuori, chi lo sa quando ha fatto pipì l'ultima volta!” Stramaledetti giardini). Chiaramente la casa era un'introvabile villetta arrampicata nel nulla, in una posizione che definire panoramica sarebbe stato denigratorio; chiaramente ci misi mezz'ora a trovarla, congelando sulla mia moto; chiarissimamente i campanelli era o due e senza nome ergo, x la regola del 50% avevo svegliato anche il vicino con annessi, impronunciabili, auspici rivolti alla mia persona e relativi antenati. Ma ero lì finalmente. E ora bisognava pensare al felino in difficoltà. Avevo portato il solito ospedale da campo (che su una moto, garantisco, ci sta “appena” strettino) e quindi approntai per prima cosa ogni strumento che ero riuscito a cacciare nella mia borsa senza fondo. Quando finalmente fui pronto, Augusto (un giorno devo parlare del perverso meccanismo che si cela dietro la scelta dei nomi dei nostri animali) era sveglio e mi guardava incuriosito, senza abbandonare la stravacatta posizione sul divano. -”Ah dottore, una cosa stranissima che non le abbiamo ancora detto: faceva dei versi che ci hanno terrorizzato; una via di mezzo tra un belato rauco e lo schiarirsi la gola”. Oh no! No sarebbe davvero troppo...mi avvicinai al gatto ed iniziai a carezzarlo, immediatamente si accese il motorino della fusa. Compressi delicatamente la pancia: la vescica era morbida, nessuna ostruzione; sarei andato anche oltre se non avessi visto l'aluccia della falena Che fremeva debolmente sotto la zampina del laconico cacciatore. A quel punto sollevai di peso Augusto e una farfalla notturna piuttosto tramortita tentò finalmente la fuga da quell'incubo. In effetti non era neanche in cattive condizioni; magari un po' shockata. Feci aprire la finestra e con l'aiuto di un bicchiere e un foglio di carta (io ho il TERRORE di qualsiasi insetto!) la condussi in salvo mentre speigavo al mio esiguo pubblico che quegli orrendi versi erano la fin troppo sana espressione di u rituale di caccia...mi girai verso i proprietari, pienamente coscienti del ridicolo episodio. Se non fossero state quasi le cinque del mattino avrei potuto ridere con loro dell'accaduto. Ma ERANO quasi le cinque del mattino. Ad andar bene mi ci sarebbero voluti venti minuti di assideramento motociclistico per arrivare a casa. E dopo due ore dopo sarebbe suonata la sveglia. “Dottore lo vorrebbe un caffè?...” e in quella pausa non ci trovai la minima malizia,solo la genuina offerta da chi sa di averla combinata grossa. “Certo signora!”. Restammo a parlare fino alle sette, seduti comodi sul divano, delle peripezie di Augusto e dei suoi avi, tra i quali figurava addirittura un persiano di importazione diretta. Nel frattempo svuotai la dispensa degli anziani coniugi, decimai biscotti e mietei vittime anche tra gli ignari succhi di frutta e finalmente mi congedai per uscire dall'ennesima notte a confini della realtà. Circa mezz'ora dopo, un cartellino faceva bella mostra di sé sulla porta del mio ambulatorio: “Siamo fuori per un'emergenza. Riapetura prevista nel pomeriggio”.
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