lunedì 16 settembre 2013

Questo mestiere qua

(Si è un po' una sboronata 'sto post, ma è per fare capire come facciamo questo lavoro. O come dovremmo farlo)


Piove. Fuori dall'ambulatorio è l'una del mattino, dentro il tempo no ha significato: ci siamo io e il gatto. E non importa da quanto siamo lì. Importa che il gatto sta male. Molto male. E io ancora non so perché. Esco a fumare una sigaretta. Piove e non passa nessuno. Tutti ignari fortunati, rifugiati in qualche posto caldo, per lo più abbandonati a Morfeo. Dai tetti l'acqua che si raccoglie cade con ritmi diversi, scandendo un gran bell'assolo di batteria. Fumo, per allontanarmi dai funesti pensieri del tempo che fuori scorre e mi ricorda che il gatto è dentro ad aspettare. Fumo e ripenso. Ai sintomi, le informazioni che ho. Tante, per una volta. E contraddittorie come in poche occasioni. Perché non risponde alle terapie? È un'infezione, ci scommetterei. Allora perché gli antibiotici, le flebo, l'alimentazione forzata non riescono ad invertire il corso della malattia? 
Guardo la punta ardente della sigaretta: tra poco fine della tregua, dovrò tornare dentro, lasciando il tempo fuori a scorrere per gli altri. 
Infine mi decido e richiudo la porta alle mie spalle. Subito mi ritrovo nel mio mondo. Lo trovo ad aspettarmi come una macchina automatica: si riaccende docile alla mia presenza. Obbediente si srotola in un istante facendo bella mostra di macchinari e farmaci. E libri. Ne ho consultati almeno quattro nelle ultime ore. Tutti confermano i miei sospetti, ma nessuno riporta la ricetta della pozione magica che ci toglierà dai guai.   
Entro in degenza, a vedere il gatto che se ne sta sdraiato su un fianco, accenna appena a un ringhio quando apro la gabbia per fargli una carezza.  Al suo posto farei altrettanto. Se non peggio. In ogni caso lui ha il buon gusto di significarmi disappunto.
Ritorno sui libri e cerco di capire se ho altre scelte di farmaci: non voglio cambiare diagnosi, voglio capire perché non riesco a guarire la malattia, che so esserci. 
Tra un giorno, massimo due, avrò la conferma dal laboratorio (o sarò sconfessato, ma faccio finta che non sia possibile). Ma due giorni il gatto non sembra averli. 
Gli antibiotici ci sono, ad ampio spettro. Le terapie di supporto idem. 
Mi manca di provare l'acqua di Lourdes e poi le ho tentate davvero tutte. 
E l'omeopatia certo, ma mi rifugio nella scusa dell'ignoranza. 
Sono ancora lì con la mente che si dimena come un pazzo nella sua camicia quando succede qualcosa di strano. 
Come se uscisse da tutte le direzioni, un suono, prima dimesso, poi sempre più forte. È qualcosa di familiare ma non riesco a focalizzarlo sul momento. Mi circonda e continua a crescere di volume, fino ad invadere tutte il pezzo di mondo in cui sono. Fino a svegliarmi con la melodia di ogni mattino. 

Eccolo. Il mestiere. Avere paura come di un incubo: avere paura che sia reale.

martedì 18 dicembre 2012

Non c'è due....


Svelerò subito che questa storia ha un lieto fine. D'accordo la suspance, ma se non mi ripetessi che alla fine tutto si è concluso nel migliore dei modi, sarei a disagio a parlare di quanto avvenuto nei primi giorni dell'ultimo mese dell'ultimo anno.
Quanto segue non ha una reale spiegazione scientifica, quindi come già detto in passato, credetemi sulla parola: la realtà ha molta più fantasia della finzione.

Il caso: cane, tre mesi, maschietto, incrocio boxer con altro generico cane. Delizioso. Nonostante un nome neutrale (Boris), il cane che arrivò da me per la prima visita di routine un mercoledì, il lunedì successivo era in sala chirurgica per una calcolosi tra le più severe che abbia mai visto e, senz'altro, la prima che mi sia capitato di diagnosticare in un animale così giovane. Fin'ora.
Fatto sta che il cane viene sottoposto a chirurgia, una cistotomia per la precisione. E la ripresa è molto buona. La sera stessa, con due ore di anticipo sull'appuntamento, imploro i proprietari di venirselo a prendere, perché il mostrino, in grande spolvero, sta dando segni di impazienza...ed io con lui. Fin qui tutto bene. Quello che mi addolora raccontare è che la notte stessa io piccolo tornò, nuovamente ostruito da alcuni calcoli che avevamo visto radiograficamente nei reni e che avevamo deciso di non asportare per la invasività dell'intervento. Memo mentale: evitare di non seguire un protocollo alla lettera: nel nostro ambulatorio, le quattro volte che, a torto o ragione, abbiamo scelto la via più facile (in questo caso per il paziente), tutto il decorso ha scelto di seguire un cammino...terrificante.
Ma torniamo a Boris: sono le 22.30 e arriva il primo messaggio della proprietaria: "Dr, mi dispiace disturbare, ma Boris, dopo due belle pipì, ora tenta inutilmente d urinare, che facciamo?". Segue mia risposta: "nessun problema (scritto con la fronte imperlata di gelido sudore): è sicuramente l'infiammazione dei tessuti dopo l'insulto chirurgico, aspettiamo un'ora e vediamo che succede". Inizio del calvario psicologico: da quel momento in avanti impiegai il mio tempo con serafica placidità: impastai il pane, bollii cavolo nero e fagioli per la ribollita (non baro: con la pentola a pressione ci metto 45 minuti) e controllai il telefono circa 79 volte.
Finalmente le 23.30 arrivarono e con esse il messaggio che speravo rimanesse una mia paura: "Dott, mi spiace, ma Boris ancora non urina, in compenso non trova pace e tenta inutilmente ormai da un'ora e mezza, pensa che possiamo aspettare". No! Non penso, diamine. Non penso proprio e non penso nemmeno che sia possibile che un cane di 3 mesi abbia 70 grammi di calcoli in vescica. Trovo altresì impossibile che la rimozione degli stessi abbia esitato in una pace di sole 8 ore e mi sembra FOLLE che questo scambio di messaggi stia davvero accadendo. "No, in effetti non è normale, vediamo in ambulatorio tra venti minuti".
Imprecando divinità vere ed inventate per l'occasione, mi rivestii e presi la via angosciosa per il mio ambulatorio. Arrivammo contemporaneamente Roy, i suoi proprietari ed io. Fumai una sigaretta ben augurale e li feci accomodare in sala visite direttamente mentre mi cambiavo. Il fatto di aspettarmelo non rese meno spiacevole la sensazione di percepire una vescica esageratamente distesa nella pancia di quella piccola creatura che, nonostante dolori vari trovava il modo di scodinzolarmi e lanciarmi linguatine affettuose.
"Ragazzi, purtroppo c'è nuovamente un'ostacolo al deflusso di urina, temo di dover mettere un catetere per cercare di arrivare in vescica e svuotarla". "Certo dottore, se possiamo aiutarla..." (Ecco, questa è la formula magica). "Si grazie, dovremo tenerlo fermo e sdraiato sul fianco". Posizionato il cane iniziai ad estrarre il catetere dalla confezione, lo lubrificai ed iniziai l'inserimento. Dopo circa tre secondi dall'inizio della procedura, la proprietaria abbandonò la postazione: "non mi sento molto bene, ho la pressione bassa, secondo me sto per svenire" e si accasciò su una poltroncina. Dovettero passare almeno dieci secondi prima che il proprietario, stoico aiutante, cambiasse il colorito del viso in un preoccupante verde oliva: "temo di non sentirmi molto bene neanche io". "Buttati subito a terra, perché tu a una poltrona non ci arrivi, presto" "no no resist...." È si accasciò al suolo accartocciandsi lentamente su su stesso, con un conclusivo contatto  della fronte sul pavimento, il tutto - giuro - ad una velocità incredibilmente lenta!
Così rimasi, col cane sdraiato sul tavolo, i proprietari variamente scomposti nell'ambulatorio, e Boris che, tirata su la testa, mi guardava perplesso...

Epilogo: il giorno successivo, sostituito da Elena, mi godevo il viaggio per la montagna quando ricevetti una telefonata dall'ambulatorio, era Elena: "Non ci crederai mai: ho dovuto cateterizzare nuovamente Boris. Questa volta è svenuta l'amica dei proprietari".

Epilogo bis: purtroppo è stato necessario operare Boris una seconda volta, ma ora lui (e io) siamo felici di dirvi che sta parecchio bene!

lunedì 27 agosto 2012

Ricordi...dolorosi


Sebbene i miei racconti testimonino il contrario, in generale non apprezzo le visite domiciliari. Gli animali a casa loro sono sempre meno visitabili di quanto non siano in ambulatorio, così come le indagini che si possono effettuare su campo pagano l'intrasportabilità di molte attrezzature. Ma quando ricevetti la telefonata della proprietaria di Fusillo e Tremolo decisi che non c'era motivo di rifiutare la richiesta: la giornata estiva era splendida, la casa a pochi passi dal mio ambulatorio, i gatti dovevano solo essere sottoposti alla visita annuale con vaccino e Tremolo, con i suoi 9 kg di peso era difficile da trasportare. Così fissai l'appuntamento per la chiusura del pranzo e continuai a visitare i pazienti del mattino.

Arrivata l'ora di chiusura preparai dunque oto e fonendoscopio, termometro, siringhe e due dosi di vaccino. Arrivai, stranamente, puntuale all'appartamento dei due gatti e, terminati i saluti del caso ai padroni di casa e alle tre figlie (Elena, Anna e Silvia), iniziai a prepararmi.
Tremolo si fece trovare sulla sedia all'ingresso e quindi iniziai da lui. Per quanto tranquillo, mi ricordavo che non fosse effettivamente il gatto più pacifico del mondo, usai quindi una certa circospezione nel visitarlo. Ma la cosa procedette molto meglio del previsto. Il terribile ed enorme gatto godeva di ottima salute e non fece segno di accorgersi neppure della puntura. Con un certo sollievo, dunque, la pratica Tremolo fu archiviata ed anche i 5 membri della famiglia allentarono l'involontaria tensione. Il gattone scese dalla sedia serafico, si strusciò un paio di volte contro le mie gambe e si allontanò. 
Nulla lasciava presagire che in quella stessa casa, entro pochi minuti, si sarebbe consumata la scena più drammatica della mia vita professionale fino ad oggi.
Compilai il libretto del gatto appena vaccinato chiacchierando con la padrona di casa ed Elena si offrì di prendere Fusillo, il mansueto tra i due gatti di casa, oltre che il più divertente: quando era stato trovato infatti, aveva vissuto recluso nel bagno di servizio per le prime due settimane (onde evitare le gelosie di tremolo) e da allora aveva preso l'abitudine di dormire nel bidet, senza alcuna possibilità di convincerlo a cambiare giaciglio notturno, neppure a distanza di quasi due anni. 
Il gatto venne quindi preso in braccio e portato sul tavolo dove lo avrei sottoposto a trattamento analogo al fratello maggiore. A differenza del fretellone però, Fusillo si mostrò spaventatissimo da subito e cercava di sfuggire in tutti i modi alla mia presa.
Ed è qui la situazione precipitò: la cosa non sfuggì a tremolo che, affacciatosi dalla stanza dove si era ritirato, mi fissò per un istante, mutò espressione ed io capii che non ne saremmo usciti vivi. Tentai di calmarlo con la liberazione immediata di fusillo, la cui fuga a gambe levate ebbe un effetto anche peggiore: vinti gli indugi il gatto si lanciò all'attacco e salto addosso alla padrona, graffiandole vistosamente il braccio. Le urla delle quattro donne si alzarono in un sol coro, Elena rimproverava il gatto, Anna, la più grande, iniziò a piangere e strillare, mentre Silvia invocava a gran voce la calma di tutti. Da cavalier serventi, il padrone di casa ed io cercavamo di distrarre il gatto, io tentavo anche di mantenere un tono pacato per infondere calma negli astanti. Ebbi talmente successo che Anna si arrampicò su una sedia urlando che quel gatto psicopatico doveva essere buttato fuori casa per sempre o se ne sarebbe andata lei, Silvia allora prese le difese del gatto ed attaccò la sorella arrampicata tacciandola di crudeltà ed intimandole di non provare mai più a dire una cosa del genere. Tremolo, forse allarmato dall'insidiosa proposta di essere cacciato, aggredì Anna sulla sedia e le tracciò sulla gamba un graffio di almeno 30 centimetri. In buona sostanza la situazione era largamente sfuggita di mano a tutti. La madre che grondava sangue ed acqua ossigenata dal braccio riuscì a far spostare Anna nel bagnetto dove si chiusero per medicarsi, con le urla della ragazza che ancora strillava irripetibili invettive contro il gatto, Silvia che restituiva al mittente insulti e minacce, mentre Elena cercava (urlando a sua volta) rifugio dietro il padre. Io cercavo di farmi venire un'idea, ma un gatto feroce di 9 kg è tra gli incubi peggiori che si possano immaginare. In un singolare mezzogiorno di fuoco tremolo ed io ci fronteggiammo nello stretto corridoio della casa. Fu lui a fare la prima mossa: mi corse incontro saltando sulla mia gamba destra ed aggrappandosi con le 4 zampe (e i 18 artigli) nella carne. Non contento dell'assalto, ebbi appena il tempo di vedere il suo corto collo prendere la rincorsa, prima di avvertire il più doloroso morso a 4 canini della mia vita dritto dritto nel polpaccio. Calciai d'istinto e sentii le unghie che si staccavano non senza conseguenze dalla mia gamba, trascinate da 9 kg di ferocia. Il gatto sbatté contro il muro e si rigirò ancora più inferocito, alla ricerca di una nuova preda. La mia gamba grondava sangue, ma giuro che mantenni il contegno cercando di vincere il panico degli altri. Chiesi a gran voce una coperta. Il padrone di casa allora si illuminò e corse nel bagno principale ritornando con un asciugamani da viso che avrebbe coperto a malapena mezzo gatto. Lo ringraziai ed ebbi anche modo di dire che non mi ero spiegato bene: avevo bisogno di una coperta più grande e li avrei fatti assistere a una magia. 
Fu Silvia a risolvere la situazione: tolse il copridivano da una delle sedute della sala e mi venne incontro fiduciosa. Iniziammo insieme quindi a stringere all'angolo il felino furibondo che, ringhiando, soffiando ed artigliando l'aria, perse ben presto ogni via di fuga. Con un ultimo gesto lanciammo quindi la coperta su Tremolo, il quale si bloccò immediatamente. L'attimo di tregua consenti a tutti di recuperare, se non la calma, la capacita del silenzio. La madre delle tre ragazze uscì dal bagno visibilmente provata più dalla figlia che dal gatto, il braccio malconcio ma medicato. Mi offrì del disinfettante. E mentre ripulivo ferite e gamba (affettando indifferenza al lancinante dolore che la manovra causava), proposi una interpretazione dell'accaduto che mettesse in buona luce lo scriteriato comportamento del gattone. Spiegai inoltre che pochi minuti sotto la coperta (della cui protezione il gatto non accennava a volersi liberare) sarebbero bastati per riportare alla famiglia il Tremolo di sempre. A queste parole dal bagno si riaccese Anna che riprese a pretendere l'immediata espulsione del mostro peloso dalla famiglia. Silvia ed Elena iniziarono a protestare e (visto che i genitori delle tre ragazze sembravano in procinto di unirsi alla discussione) fui costretto ad alzare il tono della voce per evocare il silenzio che ci avrebbe salvati tutti. Dopo un minuto di quasi silenzio (il pianto isterico di Anna aveva lasciato il posto ad una incontrollabile sequenza di singhiozzi) mi avvicinai alla coperta, tentai due colpetti sulla testa di Tremolo che non accennò alcuna risposta. Ne fui confortato: iniziai lentamente a togliere il copridivano e restituire la libertà al gattone, avvertendo la tensione che saliva nella stanza. Io stesso, pur dovendo fingere tranquillità, temevo per l'incolumità della gamba sinistra. 
Come promesso invece, il trucco funzionò perfettamente e dal mantello estrassi un altro gatto, tranquillo ed incline a farsi accarezzare. Come nulla fosse, quella stessa belva feroce che aveva tenuto sotto scacco sei persone fino a poco prima si incamminò pacifico verso una stanza e vi sparì. Apparentemente dimentico di ogni ostilità. 
La calma era restituita, ripresi i miei attrezzi ma non vaccinai fusillo, né ritenni indispensabile raccomandarmi di verificare sul libretto le scadenze dell'anno successivo. 
Le due ragazze ancora in circolazione erano eccitate e divertite a quel punto, la madre aveva recuperato la lucidità necessaria per imporsi sull'unica figlia ancora preda di una crisi di panico. Il padre era piuttosto allibito e mi chiese quante altre volte mi fosse capitata una cosa del genere. Lo tranquillizzai: il suo gatto aveva il primato di lesioni inferte fino a quel momento della mia attività. 
E, fortunatamente, il record resiste ancora oggi, a quasi un anno di distanza, insieme alle vistose cicatrici che quella storia mi ha lasciato. 

venerdì 15 giugno 2012

A Cesare quel che è di Cesare

Il succo del discorso era piuttosto facile: non avevo la minima idea di cosa avesse il cane. Febbre non c'era, d'accordo. Dolori localizzabili? Nessuno. Chiaro. Esame clinico compatibile con la sindrome di Rubik: tutto perfettamente normale. Ma il cane non mangiava. Da due giorni. Per il resto non c'era nulla di preoccupante. Almeno questa era la versione per i proprietari. I quali invece preoccupati lo erano davvero. E convinti che io non stessi facendo granché. In effetti un pacchetto esami completo, radiografie, ecografie, terapia sintomatica, ore sul paziente e ORE sui libri più diverse offerte votive contribuivano a produrre un conto in grado di coprire il budget annuale di un piccolo stato. Ma in fatto di risultati, in effetti, stavo davvero ottenendo ben poco.  Eppure quel malefico rottweiler sembrava il ritratto della salute. Mantello lucido, perfettamente idratato, muscoloso come avrei voluto essere io, pieno di energia come in una vita precedente ero stato. Umore sempre eccellente: ringhiava dal momento in cui saliva sul tavolo e smetteva dopo aver girato l'angolo della strada del mio ambulatorio. Io invece perdevo 10 anni di vita ogni volta che lui mi minacciava di morte certa.  Al quarto giorno consecutivo di digiuno, lui sembrava un fiore, io uno zombie: barba incolta, pensieri paranoici di incompetenza maxima e una bandiera bianca che volteggiava nel cervello. I clienti entrarono con aria afflitta e vagamente sfiduciata, segnale che presi con aplomb inglese: feci mentalmente testamento professionale e lasciai salire sul tavolo un sanissimo cane feroce che aveva iniziato a promettermi una morte dolorosa dalla sala d'attesa. Raccolte le informazioni sulle ultime 12 ore, decisi di eseguire una nuova radiografia; che non si potesse dire che non avevo lasciato nulla di intentato. Sdraiai il cane sul tavolo dell'apparecchio radiografico e mi preparai a ricevere in cambio un paio di morsi. Stranamente il cane decise di collaborare e, a parte un costante ringhio profondo di quelli che ti fanno ricordare i punti salienti della vita, non attentò ulteriormente alla mia salute. Scattai la radiografia e la misi nello scanner per lo sviluppo. Attesi i 40 secondi necessari a processare l'immagine e la ingrandii sullo schermo mentre già pensavo a come dire ai proprietari del paziente che, come sempre, non c'erano segni di alcun tipo. Quindi, nel momento in cui alzai lo sguardo sul monitor rimasi attonito. I proprietari mi recuperarono dalla sindrome di Stendhal non senza difficoltà. Semplicemente me ne stavo. In piedi, di fronte a quel monitor, a fissare uno stomaco pieno di cibo. Bene. Tre giorni prima non c'era, quindi nessuna occlusione. Ma allora perché avevo ancora quella faccia inebetita da somaro? E diavolo! Io avevo fatto diagnosi di cane in buona salute, quindi avevo ragione io. Erano i proprietari ad avermi fornito un'anamnesi totalmente sbagliata. Mica potevo seguire il cane e scoprire (come in seguito venne fuori), che il cane faceva colazione, pranzava, finanche cenava dal casiere dei proprietari la cui madre imbottiva di nascosto la feroce creatura! Io sono un medico, non un detective. Mentre che un proprietario non si fosse accorto di nulla, a parer mio, non stava né in cielo né in terra. Non sarei stato certo io a fare una filippica a quei due scriteriati disattenti, ma di sicuro non aveva più senso quella loro sfiducia. Quando spiegai pertanto che mancavano gli elementi fondamentali per la diagnosi, visto che il cane aveva indiscutibilmente mangiato, la risposta dei proprietari, lo sapevo, mi avrebbe ripagato di tutta la loro supponenza: "In pratica dottore, ci faccia capire: lei ci ha fatto spendere un patrimonio perché non sa neppure capire se un cane mangia o meno?!" Appunto. 

venerdì 8 giugno 2012

Della morte dell'amore



Voglio parlarvi di un aspetto della professione tanto umano quanto forse poco edificante. Un aspetto che, credo, accomuni tutti i medici da prima linea. Come recita un telefilm che adoro "dermatologo in greco significa medico inutile" quindi se parlo di medici da prima linea intendo quelli le cui scelte, tutti i giorni o solo occasionalmente, fanno l'immediata differenza tra la vita e la morte del paziente. 
Quindi non i dermatologi.

Oscar è un gatto. Un gran bel gatto. Un sacro di Birmania. Enorme. Giovane. La sua proprietaria vive per lui. Acquistato poco dopo la morte del figlio. Non è una bella cosa da spiattellare su carta, viola diversi diritti alla privacy e qualsiasi regola mai esistita in fatto di buon gusto. Ma non è un dettaglio trascurabile. 
Oscar, dicevo, è un gatto che ha sempre goduto di ottima salute, mai un problema nei suoi primi cinque anni. Ma l'anamnesi non perdona. Oscar è oggetto di profondo amore. In lui è riversato il ruolo di gatto, figlio, compagno. E questo ruolo Oscar lo ha assolto appieno. Mai distante più di un metro dalla sua padrona. Sempre presente nel dolore, nella malattia di lei, un cancro al seno. Finché un giorno Oscar decide di non farcela più. E arriva nel mio ambulatorio in fin di vita per una grave difficoltà respiratoria che, 2 minuti e una radiografia dopo essere entrato in visita si trasforma in gravissimo edema polmonare. Così Oscar muore. Poco dopo averlo visitato. Ma un medico aspetta quel momento ogni giorno della sua professione. Perché vincere la morte equivale a confrontarsi con una divinità. E la tentazione è così grande...tanto che quel medico dice di no. Intuba il gatto in arresto respiratorio. Inizia a ventilarlo manualmente e nel frattempo armeggia come la dea kalì. Accende il ventilatore polmonare, collega una fonte di ossigeno e i monitor paziente. E 3 minuti dopo una macchina pompa efficiente aria nei polmonidi Oscar. Le sue mucose virano dal blu a un sano rosa e il tracciato elettrocardiografico pieno di blocchi e aritmie ritorna regolare e forte, quasi fosse disegnato. Che miracolo la resuscitazione. Viene facile capire il perché un umile Cristo sia così famoso. Che sensazione di onnipotenza. Dire no! Alla morte in persona. Affrontarla fissandone lo sguardo e avere il coraggio di rimandarla indietro a mani vuote. 
Già. Che miracolo. 
Ma ora Oscar deve stabilizzarsi per poi migliorare, ricominciare a respirare da solo, guarire e tornare a casa ad assolvere ancora una volta il suo compito di spugna. Assorbire il dolore immenso di una donna sola e restituirle indietro aria pulita, felice. 
Solo che Oscar non ne ha alcuna intenzione. E il medico, io, lo guardo faticare per compiere ogni singolo respiro. Tre giorni dopo e una nuova radiografia e Oscar non ha più edemi nei polmoni. Il suo torace è cosparso di piccole stelle bianche, schegge luminose sfuggite ad un cuore pulsante di malata determinazione: un carcinoma primario nel pancreas. E così Oscar ha una buona scusa per morire di nuovo. 
Libero dal dolore finalmente. Libero da un ruolo che probabilmente non voleva rivestire.
E questa volta il medico, io, non osa raccogliere la sfida. non oso. Non c'è sensazione di onnipotenza che mi alletti. Solo un nuovo incontro con la morte. Che non mi ricambia lo sguardo beffardo. Non mi schernisce per la sicumera. Piuttosto mi sorride amara, come chi sa di non essere benvoluto, neppure quando viene solo per portare sollievo.

giovedì 7 ottobre 2010

Festa!


Come sempre la chiamata era arrivata alla prima portata della cena, quando si abbassa la guardia, un po' per fame, un po' per stanchezza. Indipendentemente dalle manie persecutorie, la situazione era grave, il che mi procurava quel formicolio adrenalinico che il buon senso rifugge e di cui tutti siamo affamati. Come al solito, come un pugile prima di salire sul ring, ripassavo mentalmente le informazioni sul nemico. Ok il cane tenta di vomitare, ma non riesce. Ok è autunno inoltrato e prima o poi pubblicheranno un lavoro che dimostra come le torsioni di stomaco si concentrino nelle prime notti davvero fredde e magari piovose, quelle in cui è ancora più difficile uscire di casa. Ok il cane pesa più di trenta chili (nota post intervento: 61 per la precisione), ok è uno dei miei pazienti preferiti. Bene gli ingredienti del dramma c'erano tutti, era ora di far entrare gli attori, in ordine di apparizione:

Alberto: dogue de bordeaux di sei anni...enorme, con mole e sguardo da vitello, il cane più pacifico che abbia mai conosciuto. Uno di quelli che, al momento della puntura del vaccino ti guarda come se da te proprio non se lo sarebbe mai aspettato, ma ti perdona. 

Padrone di Alberto: più o meno come il cane. Alto, indole pacifica, fiducioso. Apparentemente molto distratto, invece attento ai dettagli ed eccellente osservatore. 

Il sottoscritto

Federico: nulla da aggiungere, salvo la solita ora di macchina (senza traffico) che lo separa dal suo letto caldo alle emergenze fiorentine

Simonetta: nulla da aggiungere, salvo la solita ora e venti minuti di macchina (senza traffico) che la separa dal proprio letto caldo alle emergenze fiorentine. 

La scena: esterno dell'ambulatorio; una strada fitta di auto parcheggiate. Le 10 di sera, buio, sottile pioggia, luci di lampioni, riflessi lucidi aull'asfalto bagnato. 

Alberto e padrone già inscena, senza ombrello. L'uomo fuma (il cane no).
Arriva un auto, scende il sottoscritto, senza ombrello. Finisce la sigaretta. 

Padrone di Alberto: "Ciao Alessandro, scusa il disturbo ma non sapevo che fare"

Alessandro: "Tranquillo, quando ti tiro fuori il conto vedrai che scusa non la chiedi più". Ammicca e guarda Alberto per valutare la gravità della situazione. Perplessità 

I due scambiano battute mentre il sottoscritto apre l'ambulatorio, Alberto se ne sta pazientemente al fianco del padrone, senza dar segno di accorgersi della pioggia. 

Cambio scena: l'interno dell'ambulatorio. Luci bianche, odore di disinfettanti, fogli impilati sulla scrivania, il sottoscritto si muove rapidamente per accendere i macchinari di cui avrà bisogno.

Alberto: "........................woff!" un unico, profondo abbaio rivolto al padrone. 

Padrone di Alberto: "che c'è impiastro? Vorresti andare via? Potevi pensarci prima di sentirti male"

Il sottoscritto (che nel frattempo si è cambiato). Rientra sghignazzando in sala visite: "Alberto non dargli retta, ha più paura lui di te. Allora vediamo come stai". Abbassa il tavolo visite
Alberto oppone ostinata immobilità di fronte agli inviti a salire. Questi si trasformano presto in perentori comandi e Alberto, sbuffando, inizia poggiando pesantemente una zampa anteriore sul tavolo e poi fissa il padrone, quasi a chiedere se sia davvero quello che gli viene richiesto.

Padrone: "avanti femminuccia, sali tutto su quel tavolo!"

Il cane si decide e, al rallentatore, completa la salita. 

Il sottoscritto aziona il comando e Alberto sale ad altezza visitabile. 

La perplessità cresce: il cane non sembra in torsione, l'addome non è disteso, non aumenta di volume a vista d'occhio. Inoltre le mucose sono buone, la frequenza cardiaca è normale. 
Il sottoscritto: "sono in difficoltà: avrei bisogno di fare una radiografia per capire qualcosa di più. Anzi due: viste le dimensioni di Alberto, per vedere esofago e stomaco mi serviranno due scatti distinti. 
Padrone di Alberto: "fai tutto quello che devi, tanto non ti pago"
Il sottoscritto: "bene, allora portatelo da solo il cane sul tavolo radiologico!"

I due prendono il cane, non senza difficoltà, lo trasportano nella saletta radiologica e, sbuffando, lo sdraiano sul tavolo. Il sottoscritto tara la macchina, prepara gli schermi, poi posiziona il cane ed effettua il primo scatto. Mentre aspetta che il digitalizzatore gli mostri l'immagine, scatta anche la seconda. 

Il sottoscritto: "lo stomaco in effetti è sovradisteso, pieno d'aria, ma non vedo traccia di torsione, né la definirei una dilatazione tanto imponente..forse è il caso di telefonare a Federico e Simonetta.
Il sottoscritto inserisce anche la seconda cassetta nello scanner. 

Il sottoscritto armeggia un buon minuto col cellulare, per riuscire ad effettuare una chiamata a tre. 

Il sottoscritto: "ciao, dilatazione moderata, nessun segno di torsione. Qui non ha ancora avuto conati, in effetti sembra stare bene"

Federico: "l'esofago riesci a vederlo?"

Il sottoscritto: "sto andando ora a leggere il secondo scatto"

Simonetta: "non ci posso credere: si è ricordato di fare anche la seconda radiografia!"

Il sottoscritto rimane un secondo di fronte allo schermo, ingrandisce un dettaglio, modifica l'esposizione e poi, sempre al telefono: "non ci crederete mai..quanto vi manca ad arrivare?"

Simonetta: "io sto parcheggiando"
Federico: "io arrivo tra cinque minuti"
Il sottoscritto: "Allora vi lascio un po' di suspance!" e chiude il telefono. 
 Padrone di Alberto: "allora, si vede qualcosa?"
Il sottoscritto: "in effetti si, ma devi aspettare anche tu. Piuttosto, oggi è il...?"
Padrone di Alberto, senza un attimo di esitazione: "oggi è il 16 novembre! Compleanno di mia moglie"
Il sottoscritto, affettando sorpresa: "noo! Allora magari questa salsiccia formato gigante ha anche interrotto una festa!" 
Padrone di Alberto: "niente di che: eravamo noi con la bambina, ho cucinato io e avevamo appena stappato lo champagne e avviato la torta, quando Alberto ha iniziato a stare male"
Simonetta: "ciaononmidirenientebuonaseraèquestalalastra?"

Il sottoscritto, ridendo: "si ma non dire niente neanche tu"

Simonetta si avvicina al monitor di visualizzazione, prende in mano il mouse per aggiustarsi l'immagine, ma dopo un secondo si gira verso il sottoscritto e scoppia a ridere

Nel frattempo arriva anche Federico, con un tempismo eccezionale, saluta, guarda il monitor: "non ci posso credere"


Il sottoscritto: "si, stavamo giusto dicendo che oggi è il compleanno della padrona di Alberto"

Federico: "ah certo. Bevuto champagne?

Padrone di Alberto: "si ma...non mi dite che il cane ha rubato l'alcool! No. Me ne sarei accorto!" 

Il sottoscritto: "certo che vi trattate bene quando bevete, guarda questo" indica un'ombra sul monitor, aumenta leggermente il dettaglio e il padrone di Alberto si avvicina allo schermo


Padrone di Alberto: (piuttosto eccitato) "ma...ma è il tappo della bottiglia, qui si legge anche moet!"

Il sottoscritto: "direi che la diagnosi non è particolarmente complicata. Dobbiamo fare un'endoscopia e provare a toglierlo, ma non credo che sarà molto difficile, viste le dimensioni di Alberto"

Il cane, sentendo il proprio nome, si gira verso il sottoscritto, estende la testa sul collo e rigurgita il tappo, seguito da un boato di aria che esce dallo stomaco.

Federico: "no, in effetti non sarà molto difficile"

Risate, sipario. 

martedì 9 febbraio 2010

Gli occhi del carnefice

Ore tre. Del mattino certo. Che domande...
Ore tre dicevo. Sdraiato in un canile puzzolente a cercare di porre
fine alle sofferenze di un cane che ha tutte le carte in regola per
poter fare da solo: 21 anni, un diabete scompensatissimo, cardiopatico e forse qualche altra cosa che non ho indagato. È buio e fa anche
parecchio freddo. Mi illumina come riesce la padrona del cane. Le
batterie della sua cadaverica torcia devono avere l'età dell'animale.
La mano della signora invece deve avere bevuto un po' perché proprio
non riesce a star ferma. Sembrano gli ingredienti di un horror. Ma
questi non sono comunque mai momenti semplici. In compenso la signora
è in vena di chiacchiere e questo è di conforto: su quel pavimento di
terra battuta, mentre cerco una vena del disgraziato animale,
intorpidito dal gelo, potrei anche addormentarmi. Mi racconta di quel
mucchietto d'ossi che sto per mandare ai campi elisi. Me lo descrive
atletico, muscoloso e coraggioso. Me ne racconta le gesta. Gran
sterminatore di galline. Conquistatore instancabile, pluripadre
irresponsabile. E quella volta che fece scappare un cacciatore? Coi
bambini è sempre stato feroce. Pare che una volta abbia boicottato il
compleanno estivo di qualche generico nipote avvalendosi di armi
acustiche e un assalto alle vettovaglie coronato dal successo. Poi
arriviamo al declino. Le passeggiate sempre più rade, infine l'esilio
in quel misero recinto. Tre giorni prima il verdetto. E ora
l'attuazione della sentenza. E mentre somministro l'anestesia generale
che precede l'eutanasia, capisco. Che un po' sto ammazzando anche la
vecchia signora. Che sono 21 anni di affetti che sto per interrompere.
Sto sempre più scomodo in quel recinto, inginocchiato di fronte al
cane ora. Che per fortuna è bianco e c'è uno spicchio di luna.
Altrimenti non saprei neppure da che parte sia la testa. Cerco di
concentrarmi sugli aspetti tecnici. E si riparte di resoconti di una
vita. Mi assale un gran freddo mentre percepisco il coraggio di questa
maledetta chiamata notturna. Questo cane morirà comunque tra mezza
giornata. E la vecchia signora invece mi ha tirato giù dal letto
perché, per fargli lo sconto di qualche ora di agonia, è disposta a
illuminare gli occhi del boia e a raddrizzare la voce che trema anche
più della mano. Sono pronto ora. Chiedo alla signora se preferisce
rientrare in casa. Avverto il disagio di averle proposto di andare
via: il giardino tra canile e casa è enorme e piuttosto inospitale.
Potrei essere assalito da qualche vaga creatura. O peggio: farmela
addosso per la paura. Lei rifiuta le mie premure (grazie!). Inizio a
somministrare il farmaco. Sospiro. Fine. Ora corri.